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Roma, 800 pellegrini per la notte delle Sette Chiese
NEWS 15 Maggio 2022    di Emiliano Fumaneri

Roma, 800 pellegrini per la notte delle Sette Chiese

Dopo uno stop di due anni – causa Covid – ritorna la visita alle Sette Chiese, il pellegrinaggio che porta a toccare la sette basiliche più importanti di Roma. Una devozione popolare che affonda le sue radici nel Medioevo e riportata in auge da San Filippo Neri.

Filippo comincia a praticarla – da solo – fin dai primi anni romani. Arriva giovanissimo attorno ai vent’anni nella città eterna. In quegli anni, in una Roma che ancora porta su di sé i segni del terribile Sacco del 1527, comincia a compiere il pellegrinaggio destinato a diventare una pratica devota per migliaia di romani. Spesso se ne parte la sera da San Pietro, allora ancora incompiuta. Poi tocca San Paolo, San Sebastiano, San Giovanni, Santa Croce di Gerusalemme, San Lorenzo. Alle prime luci dell’alba arriva a Santa Maria Maggiore, ancora chiusa. Altre volte invece si ferma lungo il cammino, davanti alle porte delle chiese, passando la notte sulle scalinate a pregare e parlare coi poveri lì accampati alla ricerca di rifugio e protezione.

Molti anni dopo, appena ordinato sacerdote, Filippo comincia a portarsi dietro i discepoli nella visita alle Sette Chiese. E presto, il giovedì grasso del 1552, la visita è estesa a tutti i fedeli. È il «carnevale cristiano», la risposta di Filippo e dei suoi agli eccessi e alle sregolatezze di quei giorni. Il corteo, accompagnato dal famoso Canto delle vanità, col tempo arriva a radunare migliaia di persone, fino a un massimo di seimila.

La visita si è protratta fino ai nostri giorni. Malgrado alcune modifiche, i padri filippini hanno inteso mantenere lo stesso spirito del santo. Del resto Gustave Thibon non ha forse detto che «non c’è tradimento peggiore di una imitazione puramente esteriore»?

E così adesso ci si ritrova di venerdì. Come venerdì scorso, il 13 maggio. Partenza alle sette di sera da Santa Maria in Vallicella. C’era il timore che in tanti potessero disertare per timore del Covid. E invece a rispondere all’appello sono stati più di ottocento, da ogni regione d’Italia, anche se in gran parte – com’è naturale – da Roma. I più erano alla loro prima visita, segno di vitalità e desiderio di cose grandi.

Sì, perché di cose grandi si tratta. Anzitutto la distanza da coprire nella notte, 25 chilometri: una maratona, certo non una passeggiata. Ma padre Maurizio Botta, vera anima della visita, mette subito le cose in chiaro. Il pellegrinaggio non è una prova di forza, semmai un’ammissione di debolezza. Si cammina, pregando, cantando e meditando, non per derubare dei loro doni gli dèì come nei miti pagani, ma per implorare “il” dono: lo Spirito di Dio. Altro che atto di forza: il pellegrinaggio equivale a una resa senza condizioni a Cristo. Capitolazione totale, bandiera bianca.

Il pellegrinaggio, spiega padre Maurizio, è immagine della vita. Lungo il cammino le forze si assottigliano, gli slanci si esauriscono. È allora che si sperimenta, nella carne, la falsità dell’illusione di potersi salvare con le proprie forze. Non si tratta di fare qualcosa per Dio, ma di lasciarsi fare da Dio. È mettersi a nudo, non mettersi una potente armatura. L’incontro col proprio limite serve a connettersi col solo sacrificio essenziale: quello di Cristo.

Ma questo passaggio dal fiat voluntas mea al fiat voluntas tua va chiesto. Con forza, ripetutamente. Qui sta il senso delle meditazioni – le stesse dei tempi di San Filippo – che scandiscono la visita alle Sette Chiese. Si ripercorre ogni tappa del viaggio di Gesù durante la sua passione e morte, domandando una virtù e un dono dello Spirito a contrasto di un vizio. Una volta ancora, la sola forza di volontà (pur necessaria) non basta. Solo la grazia può sollevare la natura, impedendole di soccombere all’antinatura.

Partiamo così per Castel Sant’Angelo, la prima tappa del pellegrinaggio, dove si domanda la virtù dell’astinenza e il dono del santo timor di Dio contro il vizio della gola. Dopo la catechesi di padre Maurizio si prosegue verso San Pietro. Poi tappa a Santo Spirito in Sassia, davanti alla chiesa adiacente al più antico ospedale d’Europa, nato per assistere i pellegrini. San Filippo aveva diviso la visita in due parti: la prima prevedeva la visita agli ammalati. Ce lo ricorda padre Maurizio, da qui in poi affiancato da tre giovani – e validissimi – sacerdoti oratoriani di fresca ordinazione. Da lì, dopo aver costeggiato il Tevere, si arriva all’isola Tiberina, alla basilica di san Bartolomeo. C’è poi il lungo tratto verso San Paolo fuori le mura. La visita alle Sette Chiese – altra particolarità – è un pellegrinaggio urbano oltre che notturno. Si snoda lungo le vie cittadine alternando ai silenzi i rumori e della vitta notturna capitolina.

Anche in questo la visita è scuola di verità: più si prosegue nel cammino, più ci si addentra nella notte, simbolo della selva oscura della vita, mentre le forze man mano diminuiscono. Nei viaggi da una basilica all’altra si prega il rosario e si cantano le laudi. Dopo San Paolo c’è la sosta presso la chiesa di San Filippo Neri in Eurosia, alla Garbatella.

Poi procediamo spediti verso il cuore pulsante delle Sette Chiese: le Catacombe di San Sebastiano, le più antiche di Roma, che ospitarono anche le spoglie di San Paolo e San Pietro. Qui San Filippo si recava spesso di notte a pregare sulle tombe dei martiri e a chiedere il dono dello Spirito. Ed è sempre qui, nella Pentecoste del 1544, che secondo la tradizione filippina il santo viene introdotto nella sfera dell’esperienza mistica. Un empito d’ardore lo colpisce dritto al cuore: lo Spirito Santo irrompe in lui sotto forma di globo di fuoco con una forza tale da sconvolgerlo per sempre anche nel fisico. L’irruzione dello Spirito gli dilata il cuore, al punto che alla morte del santo si scoprirà che due costole gli si erano staccate dalle cartilagini formando un groppo visibile sul fianco sinistro.

È passata l’una di notte. Siamo nel «luogo della preghiera incessante», ci dice padre Maurizio. Che ci invita tutti a chiedere il dono dello Spirito alla maniera di Filippo: con sincerità e umiltà, riconoscendosi mendicanti bisognosi di ogni cosa, sdraiati a terra o inginocchiati. Poi attraversiamo le catacombe, al buio e in silenzio, appellandoci al mistero. Siamo più di ottocento ma a lungo si sente solo il rumore dei passi sull’asfalto, null’altro.

Le penultime tappe (San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, San Lorenzo al Verano) sono le più dure sul piano fisico. Il sonno e la fatica reclamano con prepotenza i loro diritti. Più che mai, allora, Padre Maurizio cerca di alleviare gli sforzi allietando tutti con buonumore e allegria, marchio di fabbrica dei figli di San Filippo. E mentre le prime luci del nuovo giorno cominciano timidamente a profilarsi, ci guida attraverso Termini facendoci cantare in coro le litanie lauretane, altro momento di indescrivibile bellezza.

Quasi albeggia quando, attorno alle cinque e mezza, arriviamo sfiniti davanti a Santa Maria Maggiore. Le ultime forze servono a lodare e ringraziare la Madre di Dio. È lì, davanti alla Vergine, che la resa finalmente si completa.


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