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Se anche Zagrebelsky e Travaglio definiscono una mostruosità  il «diritto a morire»
NEWS 7 Marzo 2017    

Se anche Zagrebelsky e Travaglio definiscono una mostruosità il «diritto a morire»

«Non esiste il “diritto a morire”, sarebbe una contraddizione». Ad affermarlo è stato Gustavo Zagrebelsky, importante giurista italiano, ex presidente della Corte costituzionale e guru di Repubblica e della sinistra progressista. Intervenne nel 2011 in seguito al suicidio di Lucio Magri, recatosi in Svizzera per ottenere il suicidio assistito, lo stesso luogo di morte scelto recentemente da Dj Fabo.

A dargli voce fu l’attuale direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, anche lui fortemente contrario all’eutanasia. C’è chi parla di «“suicidio assistito” come un “diritto” da importare quanto prima in Italia per non costringere all’“esilio” chi vuole farsi ammazzare da un medico perché non ha il coraggio di farlo da solo», scrisse Travaglio. «Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?».

Ma in ambito giuridico è bene ascoltare sopratutto chi ne ha le competenze, per questo restano d’attualità le parole del costituzionalista Zagrebelsky. «Quello che sto per dire è in una prospettiva laica», è la sua premessa. Giustamente nel dibattito pubblico occorre utilizzare «argomenti non dico condivisibili, ma almeno comprensibili per chiunque. Se si parte da una prospettiva religiosa, si escludono a priori tutti coloro che non l’accettano».

Innanzitutto il suicidio non è affatto un gesto di libertà, ma «la tragedia più grande». Il nostro diritto penale, di fronte alla volontà di morire, «non punisce il suicidio. Lo considera un mero fatto, non c’è sanzione se tu cerchi di ucciderti da solo. In questi confini estremi dell’esistenza individuale il diritto non può far nulla, ed è bene che taccia. Lasciando che ciascuno gestisca i suoi drammi ultimi da solo». Tuttavia, sempre nel codice penale gli articoli 579 e 580 puniscono l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio: «Questi sono delitti. Se tu ti uccidi da solo questo è considerato un fatto, che resta entro la tua personale sfera giuridica. Ma se entra in gioco qualcun altro, diventa un fatto sociale. Anche solo se sono due: chi chiede di morire e chi l’aiuta. E ancor più se c’è un’organizzazione, pubblica o privata che sia, come in Svizzera o in Olanda. La distinzione ha una ragione morale».

Ovvero, chi chiede l’eutanasia non vuole legittimare tanto la possibilità di suicidarsi ma, necessariamente, che lo Stato e i medici diventino complici e partecipino attivamente al suicidio/omicidio di un cittadino. E’ il primo punto delle dieci ragioni laiche contro l’eutanasia che abbiamo recentemente stilato. Perché, ha proseguito Zagrebelsky, «una cosa è il suicidio come fatto individuale; un’altra, il suicidio socialmente organizzato».

Gran parte dei casi di suicidio, ha proseguito il giurista, ha motivazioni assolutamente risolvibili: «derivano da ingiustizie, depressione o solitudine». Davanti a questo, «può la società dire: va bene, togliti di mezzo, e io pure ti aiuto a farlo? Non è troppo facile? Il suo dovere non è il contrario: dare speranza a tutti? Il primo diritto di ogni persona è di poter vivere una vita sensata, e a ciò corrisponde il dovere della società di crearne le condizioni. La società, con le sue strutture, ha il dovere di curare, se è possibile; di alleviare almeno, se non è possibile».

E per quanto riguarda il “diritto a morire”, slogan propagandato dall’Associazione Luca Coscioni e da Marco Cappato, Zagrebelsky ne smentisce l’esistenza: «C’è la morte che ci si dà, come dato di fatto. Ma l’espressione “diritto a morire” contiene una contraddizione. Parliamo di diritti o libertà come espansione delle possibilità. Si può parlare di diritto al nulla, o di libertà di nulla? A me pare una mostruosità».