Cracovia – Probabilmente è perché da due settimane e mezzo vivo nella città che Giovanni Paolo II chiamò “la mia amata Cracovia”, ma quel che mi colpisce (e non colpisce solo me) è che l’attuale Vaticano sembra aver dimenticato alcune delle lezioni fondamentali di diplomazia e di pensiero del Santo che arrivò a Roma da Cracovia e divenne uno dei più influenti pontefici della seconda metà del secondo millennio.
Partiamo dalla diplomazia o, meglio, dalla guida della testimonianza della Chiesa Cattolica da parte del Vescovo di Roma. Il primo viaggio apostolico di Giovanni Paolo II in Polonia, nel 1979, è giustamente considerato come un evento spartiacque della Guerra Fredda, perché innescò la rivoluzione delle coscienze che rese possibile la Rivoluzione del 1989, con le sue caratteristiche uniche nella storia. Ma molti, qui a Cracovia, ricordano molto lucidamente il secondo viaggio di Giovanni Paolo II nella sua terra natia, nel 1983, in un periodo molto difficile. La legge marziale era ancora in vigore; lo Stato polacco, sotto il generale Wojciech Jaruzelski, continuava a comportarsi come un esercito d’occupazione, opprimendo la società civile; la speranza in Solidarnosc, che era sia un movimento di rinnovamento nazionale che un sindacato indipendente, pareva ridotta in cenere. Quando Giovanni Paolo II giunse in Polonia il 16 giugno 1983, non abbracciò il generale Jaruzelski o altre autorità dello Stato polacco; al contrario, durante la cerimonia d’apertura, tenne lo sguardo verso il basso, mostrando dolore e preoccupazione sul suo volto espressivo. Una donna anziana, vedendolo così, disse: “Vedete? Lui ha capito. E’ triste”. Quando Giovanni Paolo II incontrò Jaruzelski faccia a faccia, quelli che erano fuori dalla sala dissero, in seguito, che potevano udire il suono dei pugni sbattuti sul tavolo. Giovanni Paolo II iniziò la conversazione dicendo: “Ho l’impressione che questo paese sia un grande campo di concentramento”, un riferimento alla passata occupazione nazista della Polonia che risultò molto tagliente.
Poi seguirono le due visite papali al Cile nel 1987 e al Paraguay nel 1988: due paesi cattolici governati da dittature militari. Gli incontri con il generale Augusto Pinochet e con il generale Alfredo Stroessner avvennero a porte chiuse. Ma meno di due anni dopo la visita pontificia, Pinochet accettò il plebiscito in cui il popolo votò per il suo abbandono del potere. Gli eventi furono ancora più rapidi in Paraguay, dove Stroessner, che allora era il più longevo dei dittatori, perse il potere nel 1989 dopo 35 anni. Le cause di queste transizioni alla democrazia sono complesse, come sempre. Ma, sicuramente ha influito il fatto che Giovanni Paolo II non abbia accettato l’inevitabilità del governo autoritario (insistendo, con Pinochet, che il suo popolo avesse diritto alla libertà, anche nel caso ne abusasse). E probabilmente, ancor di più, agì in modo tale da ridare speranza alle opposizioni democratiche in Cile e in Paraguay.
E poi fu la volta di Cuba, nel 1998. Troppo scaltro per affrontare il vulcano retorico Fidel Castro in un confronto pubblico, Giovanni Paolo II preferì invece mantenere lo stesso atteggiamento che tenne in Polonia nel 1979. Dopo la cortesia di rito, ignorò il regime cubano e la sua pretesa di incarnare la giustizia, e cercò piuttosto di restituire ai cubani la loro cultura, che il regime di Castro aveva violentato, e la loro storia, che il castrismo aveva riscritto. L’esempio più eclatante è il discorso che Giovanni Paolo II tenne all’Università dell’Avana, dove, con Fidel Castro nel pubblico, celebrò gli esponenti della vita culturale e intellettuale di Cuba, quella cattolicità che ha plasmato i “cubani” da un miscuglio di popoli nativi, spagnoli e africani. Ed è la stessa cultura cattolica, continuò il Papa, che ispirò molti dei liberatori di Cuba dalle catene del colonialismo (compreso l’eroico padre Felix Varela, il cui esempio avrebbe ispirato la principale iniziativa per i diritti umani nelle prigioni dell’isola, all’indomani della visita papale).
Questo approccio alle dittature di destra e di sinistra, forte nella sostanza, ma tatticamente astuto, era una sfida implicita alla diplomazia del cardinal Agostino Casaroli, l’architetto della “Ostpolitik” vaticana dalla metà degli anni ’60 fino al 1978, l’anno dell’elezione di Giovanni Paolo II. Casaroli fu spesso soprannominato il “Kissinger del Vaticano” dai media di tutto il mondo. In realtà era più da paragonarsi a Willy Brandt: credeva che la divisione dell’Europa della Guerra Fredda fosse permanente così come qualunque altro aspetto delle relazioni internazionali; sperava che un approccio più accomodante, da parte sia della Chiesa che della Nato, nei confronti dell’Urss e dei regimi comunisti del Patto di Varsavia, avrebbe incoraggiato un processo di “convergenza”, in cui un Est sempre più democratico e un Ovest sempre più socialdemocratico avrebbero finito per avvicinarsi nel corso del tempo. Si aspettava che, attraverso questa lunga e lenta evoluzione politica ed economica, il Muro sarebbe prima o poi caduto.
Il cardinal Casaroli era un abilissimo diplomatico e aveva numerosi contatti al di là della Cortina di Ferro. Inoltre, incarnava una tradizione diplomatica vaticana in cui la Santa Sede aveva sempre giocato il ruolo di “onesto intermediario” fra le potenze europee; a quei tempi, pareva talvolta che il cardinal Casroli si vedesse nei panni di un Ercole Consalvi del Ventesimo Secolo, cioè dell’abile segretario di Stato vaticano protagonista del Congresso di Vienna.
Ma Giovanni Paolo II, che conosceva il comunismo e i comunisti meglio di Casaroli, non accettò il suo progetto e non lasciò che Casaroli entrasse nel suo campo d’azione papale. Giovanni Paolo fu sufficientemente scaltro da permettere a Casaroli di proseguire la sua opera diplomatica al di là della Cortina di Ferro, così che i regimi comunisti non potessero accusare pubblicamente “questo polacco” di rinnegare i patti e di agire in nome e per conto della Nato. Però, benché non avesse mai detto, come fece Ronald Reagan, che la sua idea di porre fine alla Guerra Fredda fosse basata sulla logica del “noi vinciamo, loro perdono”, il Papa polacco era consapevole che si trattava di un gioco a somma zero: una delle parti era destinata a vincere tutto e l’altra a perdere tutto, non tanto per ragioni di potere, ma perché il comunismo si basava su una falsa idea della natura, comunità, storia e destino dell’umanità. Restituendo la verità al popolo polacco, Giovanni Paolo II lo aiutò a forgiare quegli strumenti di liberazione dal comunismo dei quali non avrebbe altrimenti mai saputo dotarsi. Così come mettendo a punto la strategia simile di resistenza del “vivere nella verità”, aiutò anche il “potere dei senza-potere” per usare una definizione di Vaclav Havel, il potere dei movimenti laici anti-comunisti promotori dei diritti umani.
L’odierna diplomazia del Vaticano pare aver dimenticato o perso per strada queste lezioni, oppure le sta deliberatamente ignorando (non da ultimo perché prove documentali schiaccianti dimostrano che l’effetto più immediato della Ostpolitik fu quello di aprire le porte del Vaticano alla penetrazione dei servizi segreti del Patto di Varsavia, un evento infausto che ho ampiamente documentato nel secondo volume della mia biografia di Giovanni Paolo II, The End of the Beginning).
Coloro che oggi guidano i rapporti del Vaticano con i politici, sono tutti nati e cresciuti nella scuola di Casaroli. E stanno diligentemente ripetendo la sua politica di accomodamento. Questo pare evidente, sfortunatamente evidente, nella diplomazia del Vaticano con la Russia di Vladimir Putin e nel rifiuto della Santa Sede di descrivere ciò che sta avvenendo in Ucraina come una grave violazione della legge internazionale: un’aggressione armata di uno Stato ai danni di un altro. Sembra evidente nella buona accoglienza riservata a Raul Castro in Vaticano, alcuni mesi fa. Ora, a giudicare dalla visita papale appena conclusa in Ecuador, Bolivia e Paraguay, un Casaroli 2.0 pare suggerire come comportarsi con i nuovi regimi autoritari dell’America Latina. Io non credo assolutamente che Papa Francesco fosse lieto di ricevere da Evo Morales, uno dei peggiori leader autoritari dell’America Latina, un sacrilego crocifisso a forma di falce e martello, al momento dello scambio dei doni a La Paz. Ma posso ben immaginare cosa avrebbe fatto il notoriamente irascibile papa Pio XI, se il ministro degli esteri del Terzo Reich Joachim von Ribbentrop, gli avesse donato un crocifisso a forma di svastica. Il signor Ribbentrop si sarebbe trovato probabilmente con un pontificio bernoccolo nel suo spesso cranio.
Quel che voglio dire, comunque, non è che il nostro papa, che si ispira a San Francesco, avrebbe dovuto picchiare Morales con quel dono (semmai se Papa Francesco avesse dovuto picchiare qualcuno, quello era il suo portavoce, per aver detto che quel dono non era “ideologico”). Voglio dire, semplicemente, che il Casaroli 2.0 della nuova, accomodante, diplomazia vaticana ha creato le premesse per cui un delinquente come Morales pensa di potersi permettere di fare quel che ha fatto. E se Evo Morales, che è poca cosa, l’ha fatta franca, cosa pregustano di fare, adesso, Raul Castro e i suoi colleghi del Partito Comunista Cubano, che non vedono l’ora di usare il Papa per legittimare la loro idea di transizione verso un modello cinese, un modello di società in cui tutto il potere è nelle loro mani e l’apertura graduale dell’economia va soprattutto a loro vantaggio?
Sembra dimenticato anche l’insegnamento di Giovanni Paolo II sull’economia, la natura della povertà nel Ventunesimo Secolo e l’emancipazione dei poveri. Non ho problemi con le recenti critiche del Papa e del Vaticano all’approccio tecnocratico alla vita economica, privo di ogni punto di riferimento morale, che ignora, quando non distrugge, i limiti alla produzione e al consumo che una seria morale pubblica dovrebbe porre. E non mi piace neppure quel tipo di corporativismo in cui la Boeing compensa Bill Clinton con 250mila dollari per un suo discorsino, poi dà un altro po’ di soldi a quel fondo fangoso conosciuto come “Clinton Foundation” e sottoscrive una donazione alla campagna elettorale di Hillary Clinton.
Non mi piace che altre grandi compagnie giochino questo stesso gioco, né mi immagino che Giovanni Paolo II avesse in mente questo tipo di corporativismo quando pensava ai rapporti fra la “libera economia” e la politica democratica nella libera e virtuosa società del Ventunesimo Secolo, i cui contorni sono ben delineati nell’enciclica Centesimus Annus (1991). Inoltre, l’enfasi che viene posta dall’attuale Papa sul problema degli “esclusi” nell’economia globale, risuonava anche nelle parole di Giovanni Paolo II. Dopotutto fu il Papa che, incontrando la premier polacca Hanna Suchocka per la prima volta, le rivolse una domanda proprio sugli esclusi. La Suchocka spiegò che la decisione di Solidarnosc, che si era formato nella lotta sindacale ma ora era al governo, fosse quella di instradare la Polonia su un percorso di terapia shock di liberalizzazioni per alimentare una crescita più rapida (cosa di cui il paese gode tuttora, in effetti).
La prima domanda di Giovanni Paolo II alla premier, fu: cosa farà lei, assieme ai suoi colleghi, per coloro che sono caduti nelle crisi provocate da questa rapida transizione? Se si può parlare di una visione politico-economica di Giovanni Paolo II, questa rientrava nell’alveo di una socialdemocrazia europea conservatrice. Non era un liberista, in nessun senso del termine; credeva che una vitale cultura morale pubblica fosse necessaria per disciplinare e temperare le tremende energie sprigionate dalla libertà economica e politica, così che risultassero in una vera prosperità umana e nella promozione del bene comune. D’altro canto, però, nutriva ben poca fiducia nel valore dello Stato moderno. La sua esperienza e la sua profonda comprensione intellettuale di alcune importanti dinamiche della politica contemporanea, gli suggerirono che lo Stato moderno, compreso lo Stato liberaldemocratico, fosse incline al totalitarismo. Una tendenza, questa, che il suo successore Joseph Ratzinger avrebbe chiamato “dittatura del relativismo”, incarnata, negli Usa, dal giudice supremo Anthony Kennedy e dai suoi quattro colleghi nella Corte Suprema, (autori della sentenza che ha imposto la legalizzazione del matrimonio omosessuale a tutti i 50 stati americani).
Per Giovanni Paolo II, lo Stato era un aggregato di funzioni importanti e necessarie, la più importante delle quali era la protezione dei diritti umani e civili fondamentali dei cittadini, che godono di questi diritti non perché concessi graziosamente, ma perché sono parte inalienabile della loro dignità umana. Non condivideva assolutamente alcuna idea “sacra” dello Stato, come alcuni dei suoi predecessori. E nell’enciclica Evangelium Vitae (1995), Giovanni Paolo, facendo riferimento agli Stati in cui torti morali sono spacciati come “diritti”, li descrisse come democrazie a rischio di tirannia. Inoltre, nella Centesimus Annus, la sua spiegazione più completa della Dottrina Sociale, condusse una critica pungente a quegli Stati sociali che creano dipendenza da welfare.
Ma i commenti di Papa Francesco in materia economica, così come quelli dei vescovi della curia romana, sembrano maggiormente legati a un concetto molto più aulico del valore dello Stato. Per quanto Giovanni Paolo e Francesco abbiano in comune una profonda preoccupazione per gli esclusi, di coloro che sono scartati nelle periferie di un’economia globale, la comprensione di Giovanni Paolo II delle cause e della natura di benessere e povertà nel mondo attuale e le sue prescrizioni per i giusti rimedi alla povertà, raramente si ritrovano nei lavori dell’attuale Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, nelle recenti iniziative organizzate dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, o nei testi ufficiali preparati dalla curia per i discorsi di Papa Francesco in America Latina.
Giovanni Paolo capì che, in un mondo post-industriale, la ricchezza non fosse legata tanto alla materia (terra, risorse e mezzi di produzione), quanto all’intelligenza e alla creatività. La volontà e l’acume dell’uomo, quando applicato al mondo materiale, trasforma materie inutili (come la sabbia e la polvere) in beni estremamente utili (come il silicio), gettando le basi della più grande espansione di ricchezza nella storia (come quella seguita alla rivoluzione informatica). In questo mondo, la povertà è effettivamente una questione di esclusione: esclusione dalla rete in cui la ricchezza viene creata e condivisa, esclusione dall’attività generatrice di lavoro degli imprenditori. E la risposta a questa forma di esclusione è l’inclusione, l’emancipazione dei poveri: tramite l’applicazione dei loro talenti, della loro intelligenza e della loro immaginazione, i poveri e le loro famiglie possano liberarsi dallo stato di privazione e dalla dipendenza dall’aiuto altrui.
Giovanni Paolo II poteva “vedere” tutto ciò, perché era parte della sua principale passione (quella per la dignità della persona umana) e perché si impegnò a studiare a fondo come funzionasse l’economia nel mondo post-bipolare. Presumo che abbia anche studiato le storie di maggior successo degli ultimi decenni, come quella delle “tigri asiatiche” e si sia chiesto “se la cultura confuciana produce una simile crescita, perché mai non dovrebbe farlo anche la cultura cattolica?” E se veramente si fosse posto questa domanda, si potrebbe ulteriormente ipotizzare, lo avrebbe fatto pensando soprattutto all’America Latina.
Questi temi di Giovanni Paolo II – la ricchezza quale prodotto dell’intelligenza, creatività e spirito imprenditoriale, emancipazione dei poveri e inclusione al centro di un programma contro la povertà – sono assenti dalle analisi del Vaticano più recenti, così come l’insistenza di Giovanni Paolo II sulla necessità tassativa di una cultura fondata sulla pubblica onestà per permettere a un’economia libera di funzionare. Giovanni Paolo II sapeva che la corruzione è una delle ragioni principali dell’arretratezza dell’America Latina, nonostante le sue enormi potenzialità. Sapeva anche che questo tipo di corruzione, sistemica e culturale, che aveva trasformato l’Argentina da uno dei paesi più ricchi del mondo a uno Stato in bancarotta, rifletteva anche un enorme fallimento della Chiesa cattolica, che ha avuto cinquecento anni di tempo per costruire qualcosa di migliore, di più nobile, un sistema che maggiormente riflette la dignità dell’uomo.
La memoria istituzionale del Vaticano pare conservare poco, sia dell’insegnamento che dell’azione di Giovanni Paolo II. Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, conosceva bene gli insegnamenti di Giovanni Paolo, quando era arcivescovo di Buenos Aires. E dicendo ai vescovi dell’America Latina di porre la ri-evangelizzazione del loro continente al centro delle loro preoccupazioni, il futuro Papa Francesco stava tracciando una rotta verso un avvenire molto diverso, uno in cui molti punti di riferimento erano stati fissati dall’insegnamento di Giovanni Paolo, sia quello sui rapporti fra la Chiesa e il mondo moderno, sia quello sulla “nuova evangelizzazione”.
Ma, appunto, in questi anni la memoria istituzionale del Vaticano sembra averli dimenticati e perciò rende un pessimo servizio a Papa Francesco, la cui immagine pubblica e popolarità potrebbero creare le premesse di un reale cambiamento: un cambiamento che porti all’emancipazione e all’inclusione dei poveri e degli emarginati. Questo cambiamento sembra improbabile, tuttavia, in circostanze come quelle che permettono a un Evo Morales di regalare al primo Papa latino-americano un esemplare di rara ignoranza, un falso comunista, un equivalente del “Piss Christ” di Andrea Serrano. E di passarla liscia. I diplomatici del Papa dovrebbero pensare, a questo punto, di passare il Ferragosto a studiare perché fallì la politica di Casaroli e a ripassare gli insegnamenti di Giovanni Paolo II sulla società libera e virtuosa nel Ventunesimo Secolo, se non altro per prepararsi per la visita di Papa Francesco a Cuba e poi negli Usa il prossimo settembre.
*Autore e attivista cattolico statunitense, biografo di San Giovanni Paolo II. George Weigel è direttore degli studi cattolici dell'Ethics and Public Policy Center di Washington DC. Questo articolo è pubblicato in lingua inglese sulla National Review. Traduzione di Stefano Magni
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