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Stilla come rugiada dal Kuwait #11 – La vera guarigione è la salvezza
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27 Giugno 2021

Stilla come rugiada dal Kuwait #11 – La vera guarigione è la salvezza

XIII Domenica del Tempo Ordinario 27/06/2021

Commento al Vangelo Mc 5, 21-43

“La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Quanto possa essere drammatico per un padre ed una madre trovarsi a pronunciare queste parole posso solo immaginarlo: un dolore straziante che toglie il respiro, che ti mette a nudo completamente, il grido di un padre che manifesta la sua impotenza di fronte all’ingiustizia più grande: la morte innocente della piccola figlia.

Nell’accorata e implorante richiesta una parola, anzi la sequenza di questa frase che mi colpisce moltissimo: visita la mia casa perché sia salvata e viva. Nel testo originale greco, i due verbi finali sono i seguenti ἵνα σωθῇ καὶ ζήσῃ, dove “salvata” indica proprio la profonda certezza che la bambina ottenga una “soteria” cioè la salvezza definitiva e “zoe” la vita, quella biologica, il funzionamento lineare del suo corpo, del suo organismo. Giairo ha chiaro che in primo luogo desidera per sua figlia morente la certezza di una vita futura, di una vita soprannaturale che da sostegno e forza alla vita biologica: imponi le tue mani su di lei, affinché resti con noi per sempre, non solo per il tempo della sua vita biologica che oramai è drammaticamente finito. Non siamo abituati a questa “ forma mentis”, ansi direi a questa “forma spiritui”; anche per i nostri cari, per i nostri figli noi desideriamo immediatamente la materialità della vicinanza (cosa buona ovviamente) e difficilmente riusciamo a desiderare il Bene Supremo, ossia la Salvezza della redenzione a sostegno e compimento della nostra vita terrena.

Ma la condizione di Giairo non è unica; anche l’emorroissa usa lo stesso verbo, seppur racchiude nel silenzio del suo cuore l’accorato appello a Gesù: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata” che nel testo greco è così: ἔλεγεν γὰρ ὅτι Ἐὰν ἅψωμαι κἂν τῶν ἱματίων αὐτοῦ σωθήσομαι. Anche lei sente sfuggire la sua vita, sente perdersi nel flusso delle sue emorragie che indeboliscono il corpo e simbolicamente lo spirito: non ha nemmeno più la forza di parlare e perfino camminare o avvicinarsi a Gesù: anche solo toccare le vesti è sufficiente perché nella sua preghiera c’è un totale affidamento a Dio.

Il dialogo successivo (immaginiamo contemporaneamente l’angoscia di Giairo che fremeva perché Gesù andasse a casa sua mentre questa donna “gli faceva perdere tempo”) è molto interessante; Gesù sa chi l’ha toccato, sa che è stata quella donna e la cerca aspettando che lei si riconosca guarita per nome, visto che già si era riconosciuta guarita nel corpo come dice il testo con certezza. La donna si sente chiamata in causa e dice “tutta la verità”, riporta il testo. Di quale verità si tratta? Era palese la verità per Gesù: l’aveva guarita, la sua “energia” come dice il testo, era uscita da Lui. L’emorroissa professa la Verità: ti ho cercato, ero distrutta, senza forze, abbandonata, impura (le donne che perdono sangue, comprese le perdite dovute al naturale ciclo mestruale, sono considerate impure), senza conforto di nessuno se non di chi si è approfittato della mia situazione (Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando) e Tu mi hai Salvata, prima ancora che guarita, Salvata. Gesù la invita a presentarsi con lo sguardo, la cerca per dirle che l’ha salvata, prima ancora che guarita: l’ha cercata con lo sguardo, ossia l’ha guardata negli occhi come nessun altro faceva perché era impura fino a quel momento e quindi non degna di uno sguardo, di un abbraccio, di un conforto. Questa è la salvezza, non un sentimento generico e collettivo di benessere ma un dono personale, fatto a ciascuno di noi, nella propria vita, nel momento in cui, come Giairo e questa donna, cerchiamo Gesù perché la nostra vita sia salvata dalle tenebre.

Che dono poter vivere la fede con questo sguardo. Che dono poter guardare negli occhi il Salvatore.

Il giorno di Pasqua dell’anno scorso, 12 aprile 2020, è morto il vescovo, anzi il vicario apostolico (come tecnicamente si chiama) della terra kuwaitiana, Qatar e Bahrein. Qui non ci sono “diocesi” come le pensiamo noi ma i territori sono vasti e le comunità cristiane disseminate, in piccoli greggi, ovunque. Il vescovo qui è concepito letteralmente come il successore degli Apostoli: lui deve girare, visitare, confortare, portare i sacramenti, rincuorare i pochissimi sacerdoti sparsi su tre stati: compiere i tre “munera” dell’episcopato, santificare, governare e insegnare.

Un’assenza lunghissima, perché dalla Pasqua dell’anno scorso ancora non c’è il Pastore di queste terre e il gregge dei fratelli soffre questa mancanza. Le comunità cristiane della zona mi colpiscono su questo tema: come facciamo senza Apostolo? Qui è una ferita vera, qui c’è la salvezza in ballo, quella di Giairo, della donna del Vangelo e di ciascuno di noi. “Se solo potessi toccare le sue vesti” diventa la preghiera di un popolo che cerca, letteralmente, il Volto del Signore; ma quel popolo dovremmo essere anche noi, anche i nostri Pastori, spesso in tante faccende affaccendati che distolgono dall’essere realmente “episcopus” da cui deriva vescovo: colui che guarda intorno da una posizione più elevata. Colui cioè che tiene d’occhio la situazione, che segue il suo gregge, che anche nel baccano del mondo (“Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”) cerca il volto dei suoi figli, perché i suoi figli cercano la Verità e tra le sue braccia vogliono riceverla.

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