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Stilla come rugiada dal Kuwait #16 – Quale segno cercate da Lui?
NEWS 1 Agosto 2021    di don Francesco Capolupo

Stilla come rugiada dal Kuwait #16 – Quale segno cercate da Lui?

XVIII Domenica del Tempo Ordinario 01/08/2021

Commento al Vangelo Gv 6, 24-35

“In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”.

Quanto strazio, dolore e forse un pizzico di delusione, perché no, possiamo trovare in queste parole del Signore. Del resto, è sufficiente pensare a quanto potrebbero risultare particolarmente difficili queste parole anche nella nostra vita quotidiana, nelle nostre relazioni umane.

Siamo nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni che, come già anticipavo domenica scorsa, occuperà cinque domeniche della liturgia. Gli esegeti ci presentano, in questo capitolo, Gesù come il Gesù glorioso, il Kýrios che parla alla sua Chiesa, alla sua Sposa e allora diventa ancora più stringente e importante approfondire questo discorso di Gesù, questa dichiarazione d’amore che fa alla Sua Sposa, alla Sua Amata.

Il popolo non ha riconosciuto i Segni del Suo Signore, i segni dello Sposo, dell’Amato che ancora una volta dona se stesso per la Sua Amata. In queste parole, Gesù ci insegna e ci mostra un elemento importante di ogni relazione d’amore, di ogni rapporto affettivo; in concreto ci dice: vi ho dato dei segni, cioè me stesso in questo pane, vi ho chiesto di lasciarvi amare, vi ho chiesto di dirmi di sì non perché io debba rispondere semplicemente ad un bisogno, ma perché io voglio amarvi, però voi (popolo) non volete; tu popolo ti accontenti e ti autoconvinci che ti basti saziarti della materialità del segno, con la convinzione che svanisca il tuo bisogno, ma ciò che spegne il bisogno non è appagarlo (infatti loro mangiano, ma avranno di nuovo fame) bensì rispondere, prendersi la responsabilità, tema centrale di queste domeniche.

Ecco perché ho usato all’inizio di questo mio commento, i termini: dolore, delusione e perfino strazio. Gesù dona se stesso al suo popolo: vuoi lasciarti amare? Io ti voglio bene come nessun altro, mi consenti di lasciarti amare? Ma il popolo non ha capito, la sua chiesa ha interpretato male le sue parole, o meglio, non le ha ascoltate (che è diverso dal sentirle); la loro risposta suona così: tu ci vuoi amare, ma a noi basta che tu possa appagare il bisogno che è la fame dello stomaco. In altre parole, a noi non interessa che tu voglia stare con noi per sempre, che tu voglia amarci liberamente, a noi interessa che tu risponda quando noi abbiamo bisogno. Ma questo non è amore, questo è necessità e rispondere ad una necessità non implica amare, basta saper risolvere il problema. Gesù non vuole essere il “risolutore”, Gesù è l’Amato dal Padre; la sua potenza consiste nella sostanza dell’Essere che è amore incondizionato, totale, eterno, non può accontentarsi di essere l’aggiustatore dei nostri ingranaggi inceppati, per quanto profondi e gravi possano essere; Egli propone molto di più.

La conferma di quanto detto, arriva dalla stessa domanda che la folla gli presenta, che rivela la mancanza di ascolto, l’incapacità di entrare, ancora, nella connessione del Signore: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo “.

Vedete? La parafrasi di questa domanda, suona così: “E quindi? Cosa ci proponi? Che cosa PRODUCI per noi? Cosa ci fai mangiare, bere, con cosa ci arricchisci? I nostri antenati hanno mangiato la manna, tu moltiplichi il pane, siamo a posto. Cerchiamo di essere concreti…….”

La smania della concretezza rivela l’incapacità di accogliere l’amore, perchè amare vuol dire sacrificarsi e questo richiede costanza e molta pazienza che deriva dal latino patior: tollerare, sopportare, un verbo “deponente” che ha cioè significato attivo e transitivo (essere tolleranti verso qualcuno) ma nella forma è passivo (implica che per sopportare, dobbiamo avere fatto esperienza di essere sopportati).

La folla non patisce con Gesù perché non ha fatto esperienza di essere già nella suprema “sopportazione” che esista: la Redenzione di Cristo stesso! Tant’è che alla fine di questo dialogo Gesù sembra quasi “sbottare”: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”.

Ho in mente i volti di alcuni “stranieri” qui in Kuwait, di tante storie che anche qui ho raccontato, tante esperienze di fede che accomunano persone di culture e tradizioni diverse, ma fratelli nell’appartenenza al Signore. Mi balza agli occhi la domanda iniziale della folla di questa pagina del Vangelo: “Rabbi, quando sei venuto qua?”, Signore Gesù, quando sei arrivato nei cuori e nelle vite di ciascuno di noi? Quando sei arrivato in terre lontane e storie di abisso di questo mondo? Da sempre, come il pane che ogni giorno sta sulle nostre tavole, scontato, anonimo, che sembra inutile senza un “companatico” ma è la base di tutto; silenziosamente presente, fin sulla Croce, per l’Eternità.


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