L’incriminazione di Donald Trump, nell’aria già da giorni, è stata formalizzata. Il tycoon martedì dovrà comparire in tribunale per rispondere di sette capi d’accusa la cui pena complessiva ammonta a 75 anni di detenzione. Si tratta della presunta cattiva gestione di documenti classificati della Casa Bianca, recuperati nella sua tenuta di Mar-a-Lago, in Florida, nonché dei tentativi di ostacolarne il recupero da parte del governo federale.
TUTTI I REPUBBLICANI A FARE QUADRATO
Se i democratici esultano, i repubblicani fanno quadrato, accusando il presidente Biden di aver “armato” il Dipartimento di Giustizia del Governo federale. Perfino Ron DeSantis, il più agguerrito avversario di Trump nelle primarie del GOP, ha denunciato che per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un ex presidente dovrà affrontare accuse penali a livello federale. «Usare le forze dell’ordine federali come un’arma politica rappresenta una minaccia mortale per una società libera», ha scritto DeSantis su Twitter. «Per anni abbiamo assistito a un’applicazione diseguale della legge a seconda dell’appartenenza politica. Perché sono così zelanti nel perseguire Trump e così passivi nei confronti di Hillary o Hunter?». Stessa risolutezza per Mike Pence, vice di Trump, che ha appena annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2024 e che pure in passato non aveva risparmiato accuse al suo presidente: «Spero che Donald Trump non sia processato per la questione delle carte classificate. Il processo ad un ex presidente sarebbe un atto divisivo per un’America già divisa».
MALEDETTO DOPPIO STANDARD
A sentire il polso di molti americani, il dato che più salta agli occhi è il doppio standard con cui è stato trattato lo stesso caso: anche Biden, da vicepresidente dell’amministrazione Obama, ha sottratto e trattenuto documenti classificati. E lo ha fatto, oltre che nei suoi uffici privati, addirittura anche in un garage, quello in cui parcheggiava l’ormai famigerata Corvette verde-scuro. «Materiali riservati accanto alla sua Corvette? A cosa stava pensando?», gli aveva chiesto il giornalista di Fox News Peter Doocy. «La mia Corvette è in un garage chiuso a chiave, ok? Quindi non è che quei documenti li abbia lasciati per strada…». Inutile dire che quella risposta aveva preoccupato molti.
Il trattamento di segno opposto relativo alla stessa fattispecie di reato è stato duramente sottolineato anche da Kevin McCarthy, presidente della Camera. «È inconcepibile che un presidente incrimini il principale candidato che gli si oppone», ha affermato McCarthy, «Joe Biden ha conservato documenti riservati per decenni. Io, e ogni americano che crede nello stato di diritto, siamo con il presidente Trump contro questa grave ingiustizia. I repubblicani della Camera chiederanno conto di questo sfacciato uso del potere come arma». Parole simile sono arrivate dai senatori Marco Rubio («Non c’è limite a ciò che queste persone faranno per proteggere il loro potere») e Josh Hawley, per il quale «se le persone al potere possono imprigionare i loro oppositori politici a piacimento, non siamo certo in una democrazia».
E LA CORRUZIONE DELLA «BIDEN CRIME FAMILY»?
Ma c’è un’altra “coincidenza” che circonda l’incriminazione di Trump, ed è il tempismo perfetto con cui questa va a impattare sull’inchiesta che coinvolge la famiglia Biden al gran completo, di fatto ridimensionandola: quella riguardante la corruzione, le tangenti e il gas ucraino. Tra i tanti, è soprattutto Elise Stefanik, presidente della conferenza della Camera dei Rappresentanti, ad aver messo il dito su questa particolarissima congiuntura di eventi. «Lo stesso giorno esatto in cui l’FBI è costretta a consegnare al Congresso accuse assolutamente credibili riguardanti la corruzione illegale, eclatante e traditrice di Joe Biden», ha twittato Stefanik, «questi usa come arma il suo Dipartimento di Giustizia per incriminare Donald Trump».
I fatti (gravissimi) a cui ci riferisce sono questi. Un documento dell’FBI affermerebbe che Joe Biden, durante la sua vicepresidenza, avrebbe ricevuto tangenti per 5 milioni di dollari da un uomo d’affari ucraino in cambio di precise decisioni politiche. Nello stesso periodo (aprile 2014), con l’aiuto del padre, il chiacchieratissimo Hunter Biden è entrato nel Consiglio di amministrazione della compagnia energetica ucraina Burisma (ricevendone un milione di dollari l’anno). Non solo. Biden, secondo testimoni, avrebbe minacciato di non trasferire più soldi all’Ucraina se il governo di Kiev non avesse licenziato il pubblico ministero che indagava sugli intrighi tra Burisma e il figlio.
Accuse assolutamente esplosive (sugli «scheletri della famiglia Biden» avevamo scritto già qui), che dimostrerebbero un conflitto di interessi gigantesco tra l’attuale presidente e l’Ucraina. Ma allo stesso tempo accuse coperte, silenziate e forse sepolte dalla notizia, rimbalzata in queste ore da tutti i media del mondo, dell’incriminazione del “cattivissimo” Trump. «Accusare Trump è un tentativo di distrarre il pubblico americano dai milioni di dollari in tangenti che la Biden Crime Family ha ricevuto da cittadini stranieri», ha scritto il repubblicano Matt Gaetz. Che ha poi chiosato seccamente: «Questo schema non avrà successo. Il presidente Donald Trump tornerà alla Casa Bianca e Joe Biden sarà il compagno di cella di Hunter».
CAPEZZONE: «ACCUSE COSÌ FAZIOSE POSSONO FAVORIRLO»
Certamente, come si leggeva ieri sul WSJ, il nuovo atto d’accusa contro Trump «aggiunge nuova incertezza alla corsa presidenziale del 2024». Per almeno la metà degli americani la speranza è che si ripetano le reazioni che anche in passato, per altre accuse, «spinsero gli elettori del GOP a stringersi intorno a lui». Ne è convinto Daniele Capezzone, per il quale, qualora Trump dovesse uscire illeso dall’inchiesta, avrebbe un «ottimo gioco a rinfocolare la sua narrazione, a questo punto fondata, su un’azione politicamente motivata nei suoi confronti».
In un contesto fatto di espliciti doppiopesismi, la ricaduta sulle primarie per il giornalista della Verità sarebbe forte e positiva: «Qualsiasi cosa uno pensi di Trump, sarà chiaro a tutti che l’ex presidente è stato oggetto di un’azione così faziosa e di un doppio standard così evidente rispetto a Biden, che non vedo come un candidato repubblicano possa batterlo». Nel caso in cui a Trump fosse permesso di gareggiare per la presidenza USA, Capezzone non avrebbe dubbi sull’esito finale: «Se fossi nei panni dei democratici non sottovaluterei affatto la possibilità, peraltro ampiamente testimoniata dai sondaggi, che Trump possa vincere la partita complessiva».
IL RUGGITO DI TRUMP
L’ottimismo della volontà contro il pessimismo della ragione? Chissà. La macchina giudiziaria è perfettamente oliata e pronta ad abbattersi sul tycoon, ma molto può ancora succedere. Rimane vigorosa e politicamente esaltante la difesa leonina di Trump, che col suo fare guascone ha ruggito così: «L’amministrazione corrotta di Biden ha informato i miei avvocati che sono stato incriminato, apparentemente per la bufala delle scatole, anche se Joe Biden ha 1850 scatole all’Università del Delaware, altre scatole a Chinatown, DC, ancora più scatole all’Università della Pennsylvania, e documenti sparsi su tutto il pavimento del suo garage dove parcheggia la sua Corvette, e che è “protetto” solo da una porta del garage sottile come la carta e aperta per la maggior parte del tempo». Per poi concludere, come sempre, in levare: «Siamo un Paese in grave e rapido declino, ma insieme faremo di nuovo grande l’America!». (Foto:Imagoeconomica)
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