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Un dono di Dio, tradito e riscoperto dai santi. Nel gregoriano c’è il dramma e la bellezza della Chiesa
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24 Novembre 2014

Un dono di Dio, tradito e riscoperto dai santi. Nel gregoriano c’è il dramma e la bellezza della Chiesa

di Mattia Rossi

 

Cercherò di essere il più “tagliente ma puntuale” possibile: pensare che il canto gregoriano stia vivendo la sua stagione di dannazione esclusivamente dal 1969 ad oggi, mentre prima, nel pre-Concilio, era tutto un germogliare di melismi, di pes subbipunctis, torculus ritorti e salicus quilismatici in una pura e intatta tradizione risalente a Carlo Magno, ecco, a credere questo ci si sbaglia di grosso. E’ un discorso, forse, non molto gradito in ambiente “tradifriendly”, ma affinché la critica dell’“oggi” possa risultare costruttiva occorre, per forza, voltarsi indietro e osservare il passato per trarne qualche proficua lezione.

Certo, è innegabile che l’oblio che il gregoriano e la musica liturgica hanno subìto a partire dalla riforma di Paolo VI in avanti rappresenti qualcosa di mai visto (lungi da me il ritenere ciò, anzi!), ma il credere – come avviene in una certa forma di grezzo tradizionalismo esteta – che la musica liturgica nell’età dell’oro preconciliare fosse scevra di disordini e porcherie è, quantomeno, difficilmente sostenibile. Per giungere a comprendere quale era lo stato della “coscienza” ecclesiale in merito al canto gregoriano – etichetta, a dire il vero, alquanto generica, ma che per ora prendiamo per valida – alla vigilia del Vaticano II, occorre fare un salto all’indietro di quasi tre secoli e mezzo.

Eh sì, perché il gregoriano è stato vittima di un primo letale stupro (e ci riferiamo, qui, solamente all’epoca moderna) non grazie alla mano fatata della “pastoralità” postconciliare, che ne ha, casomai, decretato il trapasso, ma in piena epoca post-tridentina. Nel 1614, infatti,  venne pubblicata la cosiddetta “Editio Medicea” del Graduale con l’imprimatur di Paolo V: gli esteti rinascimentali, rifacendosi alla metrica quantitativa del latino classico, decretarono che anche il canto gregoriano dovesse rispondere a simili requisiti. Così, le melodie vennero arbitrariamente “corrette” e i melismi su sillaba finale quasi totalmente tagliati. Ne risultò un canto “costruito a tavolino”, artificioso, e tanto monotono da poter esser davvero un cantus planus.

Quest’edizione, che inizialmente si spacciò falsamente come curata da Palestrina, venne ristampata ancora nel 1870 a Ratisbona e su tale edizione la Santa Sede pose un privilegio editoriale. Fu così che l’opera di restaurazione dei monaci di Solesmes, in corso proprio in quegl’anni, avvenne quasi “illegalmente” in quanto furono impossibilitati a pubblicare ufficialmente le loro scoperte con il patrocinio di Roma, custode del canto fiorito all’ombra delle cattedrali.

Fu dom Prosper Guéranger (1805-1875) a inaugurare la stagione di rinascita del gregoriano. Egli, dopo l’interruzione risalente alla Rivoluzione francese, ristabilì la vita del proprio monastero sotto la Regola di san Benedetto all’insegna di un semplice “manifesto”: «Cercare dovunque ciò che si pensava, ciò che si faceva, ciò che si amava nella Chiesa nelle età della fede». Questo lo spinse a concentrarsi quasi esclusivamente sulla liturgia e, inevitabilmente, sul canto gregoriano.

Nel filone di ricerca inaugurato da dom Guéranger si inserirono, successivamente, due monaci, dom Joseph Pothier (1835-1923) e dom André Mocquereau (1849-1930), i quali riuscirono ulteriormente nell’intento di restituire le melodie corrotte della “Medicea” ad una versione molto più vicina all’originale: il primo con la stampa, nel 1883, di un nuovo Graduale, il secondo, nel 1889, con l’inizio della pubblicazione della Paléographie Musicale, opera tuttora in corso che riproduce anastaticamente i più importanti manoscritti musicali medievali. Ma l’opera di restaurazione, come dicevo, doveva fare i conti con un impensabile ostacolo: l’edizione ratisbonense. Anzi, in taluni casi, anche in questi anni, la Chiesa non esitò ad agire in maniera drastica nei confronti di coloro che si occupavano “scomodamente” del gregoriano: padre Angelo De Santi, un gesuita che cominciò ben presto ad accorgersi quanto l’edizione Pothier fosse sicura, venne allontanato da Roma e la Santa Sede continuò ad imporre ai vescovi l’edizione ufficiale ratisbonense.

Ma a questo punto – ed è qui che si innesta una basilare differenza con la Chiesa conciliarista che avalla ogni scempio senza intervenire e sanzionare – si inserì l’elezione al Soglio di Pio X. L’operato dei monaci solesmensi, dopo anni di opposizione, conobbe un vitale impulso – e, in un certo senso, ne fu l’approvazione – dalla Santa Sede: il 22 novembre 1903, Papa Sarto promulgò il motu proprio "Inter sollicitudines" nel quale, contemporaneamente alla messa al bando del melodramma e della musica operistica in chiesa, riconosceva nel canto gregoriano il «supremo modello» (n. 3). Fu, dunque, istituita un’apposita Commissione Pontificia con il compito di curare nuove edizioni rivedute del repertorio gregoriano: il Graduale Romanum, contenete il repertorio della messa, uscì nel 1908, e l’Antiphonale Romanum, con il repertorio dell’Ufficio, nel 1912. Il gregoriano, e con esso la musica liturgica, vivendo una situazione di “esilio” nella Chiesa ottocentesca, ma, grazie all’intervento della stessa Chiesa, ritornò ad avere piena cittadinanza e la ricerca scientifica piena legittimazione.

La ricerca gregoriana è proseguita sino ad arrivare negli anni immediatamente postconciliari (non scevri, occorrerà dire anche questo, da un certo dilagamento di facili musichette dal sapore troppo ceciliano). Infatti, per la mancanza degli strumenti e delle conoscenze necessari, la ricerca solesmense, una volta riconsegnato il patrimonio originale di melodie, si era arrestata di fronte al significato preciso della notazione dei manoscritti: quale senso avevano tutti quei segni (i neumi) che costellavano i manoscritti? E perché per identici movimenti melodici corrispondevano, a volte, anche cinque o sei segni?

E’ negli anni conciliari, dunque, che si inserisce l’operato di dom Eugène Cardine (1905-1988). Egli, docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma dal 1952 e membro della Commissione preparatoria liturgica del Vaticano II, negli anni Sessanta chiarì il preciso significato di ogni forma neumatica pubblicando i suoi appunti nel 1968 nella Semiologia gregoriana: la lettura dei neumi (semiologia) mostrò come essa sfociava direttamente sull’interpretazione ritmica della Parola cantata. In quei segni, fino ad allora incomprensibili, è invece racchiuso tutto il pensiero gregoriano. La situazione, dunque, è paradossale: proprio negli anni in cui la ricerca gregoriana arrivava a compimento e la mente di dom Cardine offriva alla Chiesa la piena interpretazione della Scrittura veicolata dal suo canto, essa lo stava per tradire condannandolo ad un’eclissi pressoché totale.

In conclusione della presente riflessione, possiamo notare come il panorama liturgico-musicale preconciliare non fosse del tutto esemplare, ma era esemplare, per contro, l’atteggiamento della Chiesa di Pio X che in tale campo che non ha mai cessato di intervenire. E invece, proprio quando poteva vantare tra le mani, sul finire degli anni Sessanta, proprio in concomitanza della promulgazione del nuovo Missale Romanum, un suo tesoro ritrovato dopo anni e anni di occultamento, la Chiesa ha preferito gettare alle ortiche la sua Tradizione musicale rinunciando, ed è sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere, alla sua autorità e al suo munus di Madre e Maestra.

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