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Una fattoria per tutte le stagioni
NEWS 2 Settembre 2021    di Valerio Pece

Una fattoria per tutte le stagioni

Nell’agosto del 1946, settantacinque anni fa, veniva pubblicato La fattoria degli animali. Il romanzo di George Orwell si rivelò da subito un enorme successo, oltre mezzo milione di copie vendute solo nel primo anno. L’affresco grottesco delle illusioni rivoluzionarie (e del loro naufragio) colpì nel segno, la feroce satira sulla dittatura comunista sovietica svegliò il mondo. Va detto che in quegli anni comunismo significava esclusivamente stalinismo: l’Unione Sovietica era l’unica nazione comunista (la Repubblica Popolare Cinese fu fondata solo nel 1949, tre mesi prima della morte dello scrittore).

«Tutti gli animali sono uguali»

Com’è noto, nel romanzo di Orwell tutti i personaggi e gli avvenimenti hanno il loro preciso corrispondente storico. Il fattore Jones (immagine dello Zar Nicola II) non è assolutamente in grado – crudele com’è – di governare la sua fattoria. Una sera Vecchio Maggiore, un saggio maiale allegoria di Marx, racconta a tutti il suo sogno: un mondo d’armonia in cui gli animali sono liberi, affrancati dalla spietata signoria dell’uomo. Morto il primo leader, il ruolo di guida verrà assunto da altri due maiali: Napoleone e Palla di Neve (rispettivamente Stalin e Trotsky), i quali instaurano un “nuovo ordine” in cui, tra gli altri, vige il noto comandamento: «Tutti gli animali sono uguali». Ma l’amicizia, l’equilibrio, l’uguaglianza, iniziano presto a vacillare: proprio i maiali, protagonisti della rivolta, finiscono per imporsi come unica casta dominante. Da un certo momento in poi, tutti gli animali saranno uguali, ma alcuni lo saranno più degli altri. Impossibile spiegare la rivoluzione russa più semplicemente di così.

Perché leggere Orwell?

La domanda-chiave su un romanzo che ha contribuito in modo decisivo a cambiare lo sguardo del mondo sull’Unione Sovietica (in particolare quello americano, suo alleato nella Seconda Guerra mondiale) la ritroviamo – spiegata bene – nella penna felice di Alberto Mingardi. Il fondatore del centro-studi Bruno Leoni scrive: «Per quanto l’aggettivo “orwelliano” sia usato con una certa generosità sulle pagine dei giornali, soprattutto nei paraggi di articoli che lamentano l’eclissi della privacy e le possibilità di sorveglianza fornite dalle nuove tecnologie, non è immediatamente chiaro perché si debba leggere Orwell, oggi». Una risposta interessante è quella fornita da un profondo conoscitore di Orwell, John Rodden, docente all’Università della Virginia, il cui libro più recente è George Orwell: Life and Letters, Legend and Legacy (Princeton University Press, 2020). Rodden racconta di aver insegnato spesso ai suoi studenti la favola di Orwell, e di averlo fatto spiegandone la «seria morale esopica», e cioè che il potere corrompe. Sempre. Aggiungendo subito, però, che sarebbe pericoloso (e negligente) trascurare o minimizzare lo studio delle corrispondenze storiche contenute nel romanzo: il parallelo con la rivoluzione russa.

Da Stalin al totalitarismo tout court

D’altra parte – ed è il vero monito di questo vero e proprio cultore di Orwell – si può anche correre il rischio di commettere l’errore diametralmente opposto, a suo dire più grave: concentrarsi esclusivamente sulle corrispondenze col comunismo di Stalin eludendo il più ampio monito di Orwell contro la tirannia politica complessivamente intesa. La prova provata di ciò che suonerebbe come il più grande tradimento di George Orwell sta in un aneddoto che lo stesso John Rodden racconta, e che riguarda una sua intervista ad alcuni spettatori cinesi reduci da una messa in scena teatrale di Animal Farm nella città di Pechino. Confessa lo scrittore: «Al mio rimanere sorpreso dal fatto che l’Ufficio della censura culturale cinese avesse approvato la rappresentazione pubblica di una satira sulla bestialità del comunismo, mi hanno guardato con aria interrogativa. “Vedi, Animal Farm è un’allegoria”, hanno detto, “è una satira della storia russa, non della storia cinese”». In questa prospettiva, che è poi l’unica, La Fattoria degli animali parla oggi del rischio del totalitarismo in tutte le sue declinazioni geopolitiche. Al torbido comunismo cinese che si rende protagonista di azioni brutali (è notizia di questi giorni nuove prove sull’espianto forzato di organi di detenuti) si aggiunge un Occidente in cui il cancro del politicamente corretto – spesso declinato nella violenta salsa LGBTQ, ma non solo – fa guardare con ammirazione proprio una delle più note massime di Orwell: «Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente».

Troppo utile (quindi banale).

Dall’uscita della Fattoria degli Animali si è assistito prima a quel crollo del regime comunista russo che tanto turbò lo scrittore (non va dimenticato che per Palmiro Togliatti, capo dei comunisti italiani, Orwell era «un’altra freccia aggiunta all’arco sgangherato della borghesia anticomunista); poi all’inizio e alla fine della Guerra Fredda; infine all’ascesa e alla caduta di un numero spropositato di aspiranti “Napoleone” in ogni continente. La Fattoria degli Animali – opera un tempo così controversa tanto da non trovare editori – è servita per così tanto tempo a spiegare il concetto di totalitarismo (anche e soprattutto ai ragazzi di scuola) che oggi rischia purtroppo di essere percepita come un’opera banale. È il rischio che spesso corrono certi classici.

Illusioni pericolose

Molti per fortuna non ci stanno. «L’idea che i paesi occidentali siano abbastanza intelligenti e forti da riconoscere e resistere alla morsa del totalitarismo è un mito pericoloso», questa è la tesi della scrittrice Téa Obreht. Che a proposito del 75esimo anniversario di Animal Farm aggiunge: «Siamo troppo tranquilli, convinti di essere al sicuro da forze che potrebbero ripiombarci addosso. Stiamo già facendo grandi passi avanti in questa direzione. La Fattoria di animali ci chiede di lavorare contro quell’illusione».


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