«La mia lotta alla Consulta contro il suicidio assistito»
Intervista del Timone a Maria Teresa Russo - affetta da Atassia di Friedrich, malattia genetica rara, degenerativa e incurabile - che con altri tre malati gravi chiesto di essere ammessa in giudizio alla Consulta il prossimo 26 marzo
Il 26 marzo prossimo, come noto, la Corte Costituzionale è (ri)chiamata a pronunciarsi sul suicidio assistito. Lo dovrà fare, nell’ambito del procedimento denominato «Cappato ter», con riguardo all’articolo 580 del Codice penale nella «parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione in modo libero e consapevole». La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale di Milano nel procedimento contro Marco Cappato che ha accompagnato i signori Romano ed Elena in Svizzera dove hanno fatto il suicidio assistito.
Ebbene, in questo processo costituzionale vogliono dire la loro – ed hanno richiesto di essere ammessi a intervenire in giudizio, con l’assistenza dell’avv. prof. Mario Esposito (foro di Roma) e dell’avv. prof. Carmelo Leotta (foro di Torino) - anche quattro malati gravi che chiedono di vivere e di essere tutelati proprio attraverso quelle garanzie che, ad oggi, l’articolo 580 del Codice penale assicura loro. Tra costoro, c’è la signora Maria Teresa Russo, 61 anni di Palermo, coniugata, madre di tre figli e oggi dirigente scolastico dopo essere stata docente e avvocato. La signora da circa 20 anni è affetta da Atassia di Friedrich, che è una malattia genetica rara, degenerativa e incurabile che colpisce il cervelletto, per cui progressivamente vengono meno tutte le funzioni che dipendono dal esso. Da circa 4 anni è in carrozzina. Il Timone l’ha avvicina per capire meglio significato, finalità e speranze della sua coraggiosa battaglia.
Signora, anzitutto perché ha deciso di richiedere di ascoltata dalla Corte Costituzionale nell’ambito del processo “Cappato ter”?
«Io sono una persona affetta da una patologica irreversibile ma non soggetta a un trattamento di sostegno vitale. Nella mia vita ho già dovuto affrontare dei momenti in cui la vita era diventata intollerabile, ma li ho superati. Mi sono resa conto, anche come avvocato, che se la Corte accogliesse la questione di legittimità che viene posta e togliesse il requisito del sostegno vitale dalle condizioni di non punibilità, anche io potrei accedere al suicidio assistito, qualora lo volessi. L’accoglimento della questione di legittimità avrebbe una ricaduta enorme: la conservazione della mia vita sarebbe posta tutta sulla mia capacità di resistenza al dolore fisico e morale della malattia, a prescindere da un requisito oggettivo, cioè a prescindere dalla necessità del trattamento, e quindi della prossimità della mia morte. Per questo voglio essere parte in questo processo, per difendere il mio interesse a non subire una riduzione nella tutela del mio diritto alla vita».
Quali tutele e garanzie assicura a cittadini come lei che l’articolo 580 del Codice penale come si pone oggi, con la richiesta, tra i requisiti di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, del trattamento di sostegno vitale?
«La Corte costituzionale, ha usato un’espressione, quella di «cintura di protezione» che si assottiglierebbe se ne eliminassimo un tassello importante, come il trattamento di sostegno vitale. Il malato, che è fragile, viene lasciato solo, in balia soltanto della propria autodeterminazione, su cui incide pesantemente la sua fragilità».
È ottimista sull’accoglimento della vostra istanza?
«Sì, sono ottimista, perché la Corte ha già ammesso lo scorso anno dei malati che come me erano affetti da una patologia irreversibile ed erano senza trattamento. L’unica differenza tra me e loro è che io non voglio fare il suicidio assistito e spero di non volerlo mai fare. Loro sì. Oggi voglio essere anch’io parte in questo processo per chiedere alla Corte costituzionale di continuare difendere il mio diritto alla vita e di stabilire una volta per tutte che la dignità di malati nelle mie condizioni è uguale a quella di tutti gli altri che malati non sono».
Al di là di questo processo, quando si parla di fine vita, raramente voci come la sua trovano spazio nell’agone mediatico. Come se lo spiega: esito di un pregiudizio oppure sono i media ad essere spesso orientati in senso favorevole all’eutanasia?
«Vi sono tante voci che si spendono per la vita e per le persone. Tanti sportivi anche come Bebe Vio ed Alex Zanardi. Nei media spesso tante voci si ergono per l’autodeterminazione della persona e ne fanno una bandiera: di fronte alla nostra impotenza quando il dolore è duro, darsi la morte diventa l’atto di controllo, l’atto di ribellione al dolore, di non accettazione. Chi accetta il dolore viene visto talora come un nemico dell’uomo. Io penso il contrario. La nostra dignità di fronte al dolore sta non nel darci la morte, ma nel vivere, curando la sofferenza – che si può curare – e nell’affermare con la nostra vita che siamo più forti noi! Che la vita è più forte. Ma della vita bisogna prendersi cura e, per farlo, c’è bisogno di farsi aiutare. Il contrario dell’aiuto al suicidio, insomma! »
(Foto: Maria Teresa Russo/Pexels.com)
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