Qualche giorno fa, il 16 marzo, l’eurodeputato socialista francese Raphaël Glucksmann, fondatore e copresidente del partito di Centrosinistra Place publique, figlio del filosofo André Glucksmann (1937-2015), ha provocatoriamente chiesto agli Stati Uniti d’America di restituire alla Francia la Statua della Libertà perché non la meritano. Glucksmann ce l’ha con il presidente Donald J. Trump, perché, da buon socialista francese, crede di avere il monopolio della libertà, sia concettuale sia pratica. Glucksmann, è facile immaginarlo, crede di avere il potere unico e inalienabile di dispensare patenti di libertà autentica, rilasciandole solo a chi s’inginocchia a quel misto di illuminismo (violentemente giacobino i giorni pari o furbescamente da Foglianti i giorni dispari), social-tecnocrazia, anticlericalismo, positivismo e una spruzzata di massonismo di cui è fatto il concetto rivoluzionario francese di libertà. Glucksmann crede di essere l’oracolo del dio materialista della
liberté e quindi non capisce cosa sia il concetto di
liberty d’Oltreoceano, quello che, forgiato sulla
libertas della tradizione classico-cristiana europea, tollera il plurale
liberties a significare le libertà plurali concrete in cui si articola il concetto filosofico di
freedom, che invece nel buon inglese parlato bene ha solo il singolare. Ha insomma letto poco Edmund Burke (1729-1797), il padre nobile dietro le quinte degli Stati Uniti, e quindi pensa che la Statua della Libertà sia un pezzo di Francia
gauchiste oltre l’Atlantico e oggi s’indigna.
Se invece avesse letto più Burke, Glucksmann saprebbe perché chi arriva negli Stati Uniti, affranto come si arrivava in tempi di immigrazione massiccia dal mare, viene accolto dalla torcia di luce sorretta da quella colossale statua di acciaio e rame che offre il benvenuto sulla Liberty Island all’entrata del porto sul fiume Hudson, nel centro della baia di Manhattan. Saprebbe, cioè, che la fiaccola che figuratamente non si spegne mai di quel colosso non è affatto un pezzo di utopia, ma un pezzo di realismo cristiano. E non francese, bensì italiano. Certo, tutti sanno che la Statua della Libertà venne realizzata da due francesi, lo scultore Frédéric-Auguste Bartholdi, (1834-1904) e l’ingenere Alexandre Gustave Eiffel (1832-1923), quello della famosa Torre innalzata a Parigi per l’Esposizione universale del 1889, primo centenario della Rivoluzione Francese (1789-1799). Tutti sanno che la Statua fu un dono della Francia agli Stati Uniti, inaugurata il 28 ottobre 1886 per il centenario della
Dichiarazione d’indipendenza statunitense del 1776. Ma pochi sanno, o ricordano, che quella Statua è modellata su un’altra, sotto la quale transitano migliaia, milioni di turisti senza accorgersene.
È la statua, realizzata nel 1810, dallo scultore romano Camillo Pacetti (1758-1826) nientemeno che per la facciata di un edificio unico al mondo, un luogo di culto inimitabile per quel suo gotico originale e fantasmagorico: la Cattedrale Metropolitana della Natività della Beata Vergine Maria, ovvero il «Dòmm de Milan», il Duomo del capoluogo lombardo. Fermatevi davanti alla facciata del Duomo la prossima volta che passate di lì. Innalzate lo sguardo, facendolo correre non troppo velocemente dal portone centrale fino al finestrone che lo sormonta e poi spostate gli occhi sulla vostra sinistra: eccola lì la vera Statua della Libertà. La stessa toga, la stessa testa coronata di brillantezza a raggi resa pietra tangibile, la stessa mano destra che innalza una fiamma che non si spegne. Sulla sinistra ostenta invece, enorme, la Croce di Cristo. Infatti quella statua bellissima sul Duomo ha nome «Legge Nuova», cioè il Nuovo Testamento, il Vangelo della Croce e della Luce che non si spegne, che è nuova perché compie il Vecchio Testamento e ammaestra le genti, una novità che non distrugge ma invera e completa. Per quello è finita nella baia di New York ad ammaestrare, in un nuovo che non rinnega l’antico, anche le genti d’Oltreoceano.
Da sempre qualcuno dice che è una lettura tirata per i capelli. Non è vero. L’uomo non inventa mai nulla di nuovo e l’arte e tutta citazionista, un rincorrersi di modelli assunti coscientemente e di suggestioni di cui si è smarrita l’origine ma non il senso, perché il bello e il vero che costituiscono l’arte sono sempre uguali a se stessi e non mutano con il tempo cronologico o con quello atmosferico. Bartholdi vide la statua di Pacetti e ne fu affascinato, facendone un dono per gli americani: qualsiasi sia stato l’intento di Bartholdi, la luce vera che splende anche a New York è stata accesa sul Duomo di Milano, e l’inizio nuovo degli Stati Uniti con la
Dichiarazione d’indipendenza, un documento nuovo ma in verità antico, sono illuminati del faro del fare nuove sempre e costantemente tutte le cose della luce del Vangelo. I riferimenti coscienti, e a volte no, ma sempre oggettivi, al cristianesimo e al retaggio della civiltà europea fondata sul concetto giudeo-cristiano di persona sono la stoffa da cui sono stati tagliati anche gli Stati Uniti e il rapporto con la Francia non è quello che i vari Glucksmann vorrebbero farci digerire.
Leggiamo ancora, purtroppo, delle parentele presunte fra la Rivoluzione Francese e la cosiddetta «rivoluzione» americana che però tutti chiamavano solo Guerra d’indipendenza (1775-1783). Deve passare la nottata. Nel frattempo si può ripensare al fatto che, sì, il marchese di La Fayette (1757-1834) combatté assieme agli americani e poi fu tra i redattori della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 francese, ma che ai patrioti oltre l’Atlantico prestò il braccio anche Charles Armand Tuffin, marchese de La Rouërie (1751-1793), tutt’altra pasta d’uomo. Amico e compagno del padre della patria George Washington (1732-1799), reclutò i primi volontari nordamericani pagandoli con i propri beni e, dopo la battaglia di Yorktown, in Virginia, nell’ottobre 1781, fu promosso generale di brigata. In Patria, in Bretagna, fu uno dei primi promotori della Chouannerie, la rivolta legittimista e cattolica in armi contro la Rivoluzione Francese. Il «colonnello Armand», com’era noto, era infatti convinto che i patrioti americani e i contro-rivoluzionari di Francia combattessero lo stesso nemico, la stessa sovversione della civiltà e del diritto, la stessa ideologia che voleva distruggere il passato, il vero, la bellezza, la fede. Morì il 30 gennaio 1793, nella fattoria dove si era rifugiato, braccato dai giacobini. Qualche giorno prima, il 24 gennaio, aveva letto la tragica notizia del ghigliottinamento del suo re, il 21 gennaio, a Parigi. Fu preso da delirio e cadde in agonia per giorni, fino a che rese l’anima. Il legame fra Stati Uniti e Francia ha luci ben più nobili di quelle a cui vorrebbero ridurre tutto i Glucksmann
(Fonte: screenshot Andrea Cherchi, YouTube)