«I dazi di Trump possono decretare la fine dalla globalizzazione»
«La nostra reazione dovrebbe essere un grande piano di investimenti pubblici e privati per rilanciare l’industria nazionale», dice, intervistato dal Timone, Sergio Giraldo, analista dei mercati energetici e delle politiche economiche europee
Ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale, il presidente Donald Trump, introducendo i temuti dazi. Tanto è vero che da giorni il mondo intero sembra di non parlare d'altro, i mercati e le borse sono nella tempesta; da parte loro, i tanti Paesi colpiti da queste misure stanno provando a reagire, chi imboccando la via negoziale chi invece annunciando contromosse, anche se non è ben chiaro con quali effetti e risultati. Ma che logica c’è alla base di un’azione così drastica, come quella del presidente americano? Per capirne di più, abbiamo contattato Sergio Giraldo, analista dei mercati energetici e delle politiche industriali europee, redattore presso La Verità e anche collaboratore del nostro mensile.
Dottor Giraldo, dopo la pioggia di dazi di Trump molti dicono che alla fine ci perdiamo tutti. Cosa può accadere e quale è la logica americana di questa decisione? «Il tentativo di Trump è quello di riequilibrare il deficit degli Stati Uniti che è arrivato a circa 1200 miliardi di dollari nel 2024. I dazi cercano di rimediare a questa situazione di squilibri scoraggiando le importazioni dall’estero e cercando di favorire le aziende che producono negli Stati Uniti, quindi cercando di favorire l’offerta interna. La globalizzazione ha fatto crescere i consumi negli Stati Uniti, ma questi consumi sono stati fatti sempre più dall’estero e sempre meno dalla produzione interna e questo ha depresso la capacità industriale degli Stati Uniti facendo chiudere tante aziende e facendo perdere posti di lavoro. Quindi Trump in campagna elettorale ha detto che avrebbe incrementato i posti di lavoro, che avrebbe riportato l’industria negli Stati Uniti ed è quello che sta cercando di fare con questa manovra».
In che senso i dazi possono essere intesi come l'inizio della fine della globalizzazione come l'abbiamo intesa fino ad oggi? «Può trattarsi davvero della fine della globalizzazione, almeno quella che abbiamo conosciuto fino ad ora perché dovrebbe spingere paesi con forti surplus commerciali, come la Cina, la Germania e altri a privilegiare la crescita interna, anziché crescere sulla domanda altrui “vampirizzandola”. La competizione, nella globalizzazione è sempre stata fatta sui costi e cioè chi ha il prezzo più basso vince, ma questo ha provocato dei disastri: prima di tutto la delocalizzazione delle aziende, nei paesi dove il costo del lavoro è basso perché la gente viene pagata poco o dove non esiste uno stato sociale, contributi al lavoro, assicurazioni sanitarie ecc. e dove l’ambiente viene disastrato senza costi. Paesi come Germania e Cina hanno compresso i salari e la domanda interna dev’essere competitiva sul mercato: bisogna inondare il mondo con i propri prodotti a prezzi più bassi. E’ questo che ha generato questi enormi surplus che sono questi squilibri che ora impongono una reazione da parte degli Stati Uniti. Secondo me quello di Trump è il primo serio tentativo di correggere alcune storture della globalizzazione, anche se è una manovra che comporta dei rischi enormi».
È un caso oppure no che a lamentarsi dei dazi sia soprattutto, forse più ancora del mondo dell'economia reale, un establishment che fa parte della scuola economica dominante di stampo liberista? «Non è un caso: la visione liberale vede la globalizzazione come una cosa buona perché permette la piena libertà di movimento dei fattori produttivi consentendo l’accumulo di capitale. I dazi, da questo punto di vista, sono sabbia nell’ingranaggio di questa fabbrica delle disuguaglianze».
Quale dovrebbe essere la reazione, se così si può dire, dell'Unione europea? E quale quelle dell'Italia? «La nostra reazione dovrebbe essere quella di lanciare un grande piano di investimenti pubblici e privati per rilanciare l’industria nazionale. La Germania, in particolare, dovrebbe fare tutti quegli investimenti che non ha fatto negli ultimi trent’anni: stiamo parlando di infrastrutture ma non soltanto. Cioè il mercato unico, costituito nell’Unione Europea doveva servire proprio a questo: costruire una grande area di mercato omogenea dove i paesi potessero crescere ma anche un’area di mercato protetta, grande, che assorbisse gli shock esterni della domanda. Il mercato unico è sempre stato dipinto come il totem dell’Unione Europea e sarebbe ora di farlo funzionare: servono investimenti veri, nell’industria, nell’acciaio, nelle infrastrutture, nell’energia, nell’automobile, nel digitale ma dire anche nella scuola e nella formazione professionale e nella cultura». (Foto, Linkedin/Screenshot Rai, YouTube)
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