Papa
Caro Cappato, la vera civiltà è quella che tutela la vita sofferente
Risposta dell'avvocato Giancarlo Cerrelli ad un intervento del leader radicale pubblicato su "Repubblica"
22 Luglio 2025 - 00:10

Nell’articolo pubblicato su la Repubblica del 20 luglio 2025, “I passi indietro sul fine vita”, Marco Cappato lamenta un presunto arretramento normativo in materia di eutanasia e suicidio assistito, denunciando come una “buona notizia” per chi soffre venga ostacolata da un Parlamento che, a suo dire, avrebbe smarrito il coraggio dei “diritti civili”. Ma in realtà, ciò che Cappato definisce un diritto è, più propriamente, la richiesta di legalizzare la morte come risposta alla sofferenza. È questo l’avanzamento civile che si auspica?
Sotto la retorica della libertà e dell’autodeterminazione, Cappato continua a promuovere un’idea profondamente individualistica e riduttiva dell’essere umano, in cui la fragilità non trova risposta nella cura, nella solidarietà, nella prossimità, ma solo nell’abbandono terapeutico e, in ultima analisi, nella soppressione di chi soffre. Parlare di “diritto a morire” – o, peggio ancora, di “diritto a farsi aiutare a morire” – significa capovolgere il senso stesso della medicina e del diritto: non più promozione della vita, ma razionalizzazione della morte come via d’uscita. Non è un caso che le resistenze alle proposte radicali di legalizzazione dell’eutanasia vengano anche da chi, in ambito medico e sanitario, vive ogni giorno il dramma della sofferenza: perché sa che la vera risposta non sta nell’eliminare il paziente, ma nel potenziare le cure palliative, l’accompagnamento, la dignità dell’assistenza. La legge, nella sua forma più nobile, è chiamata a tutelare i più deboli, non a sancire nuove forme di esclusione esistenziale. Cappato si scaglia poi contro le proposte parlamentari che prevedono un coinvolgimento più rigoroso dei Comitati etici e delle strutture pubbliche. Eppure, è proprio questo il segno di una democrazia che non si arrende alla logica del “fai-da-te” esistenziale. La malattia non può diventare il luogo in cui si esercita in solitudine una libertà disperata. La società ha il dovere – anche morale – di accompagnare e non di eliminare. È altrettanto paradossale che, in nome della libertà, si chieda l’intervento del potere pubblico per trasformare l’eutanasia in prestazione garantita dal Servizio sanitario nazionale. Che libertà è quella che chiede di essere esercitata per decreto, sotto controllo statale, e addirittura finanziata con fondi pubblici? Infine, Cappato celebra come modello i sistemi francese e britannico, omettendo però che proprio in quei Paesi la questione resta ampiamente controversa e che i tentativi di liberalizzazione spinta dell’eutanasia hanno generato gravi tensioni etiche, politiche e sociali. Dove si apre la porta alla morte “assistita”, non si rafforza la libertà, ma si crea un pericoloso scivolamento verso l’eliminazione sistematica dei fragili. La vera civiltà non è quella che facilita la morte, ma quella che si prende cura della vita, anche nella sofferenza. Ed è proprio questo il senso profondo dei presunti “passi indietro” di cui si lamenta Cappato: sono in realtà passi di responsabilità, di umanità, di rispetto della dignità di ogni persona, anche quando la vita pesa. La politica, se vuole essere all’altezza della sua missione, non può cedere al mito efficientista dell’eutanasia, ma deve rimanere fedele al principio, non negoziabile, che la vita – sempre – è degna di essere vissuta (Foto: Imagoeconomica) ABBONATI ORA ALLA RIVISTA!