Giovedì 23 Ottobre 2025

Morire non è un atto di coraggio

Dalla “bella morte” fascista al suicidio assistito celebrato: la cultura della fuga travestita da libertà

freepik suicidio assistito

Negli ultimi mesi, casi di suicidio assistito e di eutanasia legale sono stati accolti dai media e da una parte dell’opinione pubblica come gesti eroici, manifestazioni di libertà estrema. Persone fragili, malate, spesso stremate psicologicamente, vengono raccontate come “coraggiose”, “coerenti”, addirittura come paladini di diritti civili. Ma dietro l’enfasi emotiva, si sta diffondendo una narrazione inquietante, pericolosa. Perché sì, anche oggi, in una società che si professa libera, stiamo assistendo alla resurrezione di un vecchio mito: quello della “bella morte”.

Nel fascismo, la morte era un ideale estetico. Morire giovani, in guerra, per un ideale, significava compiere l’atto più puro. Non contava vivere bene, ma morire in modo scenografico. La morte diventava un prodotto culturale: virile, disciplinato, utile alla propaganda. Lo stesso vale per certa estetica romantica decadente, dove suicidarsi per amore o per spleen era segno di grandezza interiore.

Oggi questa mitologia non si è spenta: ha solo cambiato vestito. Il nuovo mito è quello del “diritto a morire”. È presentato come il massimo della civiltà, della libertà personale. Ma attenzione: quando la morte diventa spettacolo, esempio, ispirazione… è sempre propaganda. Anche se non la impone uno Stato totalitario, ma la spingono talk show, editoriali, documentari lacrimevoli.

Il messaggio è sottile, ma devastante: chi soffre davvero “sceglie” di togliersi di mezzo. E quindi, chi non lo fa, è forse egoista? Codardo? Un peso inutile?

Ecco il paradosso: mentre si finge di parlare di libertà, si sta normalizzando un’idea — quella che la vita fragile non valga la pena. Che la sofferenza sia da eliminare, non da accompagnare. Che chi è “a carico” della società farebbe bene a sparire. È una forma di eugenetica dolce, mascherata da compassione.

Non ci si rende conto che ogni volta che si celebra pubblicamente un suicidio assistito, si invia un messaggio ai depressi, ai malati cronici, ai disabili, agli anziani soli: “Forse anche tu dovresti fare lo stesso”. Il rischio non è teorico: è reale. Lo sappiamo dalla psicologia sociale. L’effetto Werther esiste, e funziona. Ogni suicidio spettacolarizzato porta altri con sé.

Serve dirlo chiaro: morire non è un atto di coraggio. Non è un esempio. E non è mai una liberazione “libera” se il contesto ti fa sentire di troppo. La vera civiltà non è dare la morte con il permesso legale, ma saper sostenere la vita quando fa più paura. Non con la retorica, ma con la presenza, l’assistenza, il senso. Celebrare la morte come libertà è una scorciatoia pericolosa. È la resa di una società che non sa più prendersi cura.

E chi la spinge, spesso, non è un progressista: è solo un fatalista ben vestito.

*Neuropsichiatra Infantile, Esperto Dipartimento Antidroga Presidenza del Consiglio, promotore network “Ditelo sui tetti”

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