Al Meeting di Rimini la voce delle «madri per la pace»
All’incontro di apertura dell'evento di Rimini - dov'è presente anche Il Timone -, le testimonianze di una madre israeliana ed una palestinese cui è morto un figlio
Ieri il primo incontro del Meeting di Rimini - evento in cui, con un proprio stand e dei propri incontri, è presente anche il Timone - si è tenuto all’insegna di testimonianze molto forti: quelle di alcune «madri per la pace», donne cioè – nonostante le loro storie e le loro ferite – oggi si spendono quotidianamente per un dialogo autentico, capace di sanare realmente i conflitti e le tensioni. Moderate da Alessandra Buzzetti, giornalista, corrispondente di TV2000 dalla Terra Santa - dopo il saluto introduttivo di Bernhard Scholz, presidente Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, in cui è stato letto anche un saluto di Papa Leone XIV -, a prendere la parola sono state tre personalità.
La prima è a rendere la propria testimonianza al pubblico è stata l’israeliana Elana Kaminka, madre di Yannai, un soldato ucciso il 7 ottobre 2023 ancora giovanissimo - non aveva ancora compiuto 21 anni – dopo aver salvato peraltro diverse vite umane, in quel terribile giorno passato tristemente alla storia. Ebbene, ciò nonostante la signora Kaminka è stata capace, appena due mesi dopo la morte del figlio, di scrivere su un importante quotidiano del suo Paese queste parole: «Stiamo soffrendo tutti, e noi ci illudiamo che la forza e la violenza ci aiuteranno ad uscire da questo pasticcio. Non è vero».
La signora Elana Kaminka ha poi raccontato d'essersi imbattuta in alcuni scritti del figlio, trovati solo dopo la sua morte. Scritti nei quali Yannai ha lasciato una sorta di testamento spirituale, condensabile in una frase che non può non colpire chiunque la legga e che costituiva per il giovane militare un imperativo: «Amare le persone di cui sei responsabile». «Sto cercando di portare avanti l’esempio di Yannai, rispetto alla leadership e rispetto a quello che fare», ha raccontato la madre, il cui impegno oggi è appunto alimentato dalla volontà di tenere viva la testimonianza del figlio.
Non meno toccante è stato poi il racconto di Layla al-Sheik, madre musulmana di Betlemme la quale ha perso un figlio piccolo, Qusay, nella seconda Intifada. Era il suo secondo figlio e la donna ha impiegato 16 anni per guarire da quel suo enorme dolore: «Dopo 16 anni ho incontrato una persona amica e ha cominciato a spiegarmi delle cose di una organizzazione e mi sono chiesta come io avrei potuto partecipare ad essa Sono poi stata invitata ad una conferenza di soli palestinesi e poi sono arrivati gli ospiti israeliani. Mi sono sentita all’inizio a disagio, ma poi quando li ho visti dialogare e parlare insieme mi sono detta: “Anche tu devi fare come loro”».
Da quel precismo momento, per Layla al-Sheik è iniziato un percorso nuovo e per nulla semplice, che però l’ha trasformata: «Era la prima volta che provavo un senso di condivisione delle stesse lacrime e della stessa sofferenza e, per la prima volta, ho visto gli israeliani come esseri umani! Ed oggi porto un messaggio di riconciliazioni». Come ha notato la giornalista Alessandra Buzzetti commentando queste ultime parole, esse dimostrano quanto purtroppo disumanizzante sia la guerra, se dopo un po’ si faticano perfino a vedere gli altri «come esseri umani». La terza «madre per la pace» a prendere la parola è stata una religiosa.
Stiamo parlando di Azezet Habtezghi Kidane, suora comboniana eritrea, conosciuta anche come suor Aziza, attiva per anni in Israele e nei Territori Palestinesi, prima in Sudan e in Eritrea. Insomma, una «madre per la pace» che ha speso un’intera esistenza sui teatri di guerra, 14 anni della quale solo in Terra Santa. Ebbene, anche suor Aziza – lodate le parole delle altre due donne intervenute («tanta gente soffre come loro, ma lo tiene dentro») – ha ricordato come quanto avviene in Medio Oriente sia dolorosamente insensato: «Anchetanti israeliani sanno che con la guerra non c’è nessuna speranza. Bisogna fare la differenza: quando si vede il volto dell’altro e si vede che soffre come me, allora si vede Dio».
In conclusione, pur essendo differenti per storie e fedi, le voci delle tre «madri per la pace» risuonate ieri al Meeting di Rimini, nell’incontro di apertura, sono state sorprendentemente simili e convergenti, anzi, nel loro appello affinché tutti si adoperino non solo per fermare la follia della guerra vedendo gli altri «come esseri umani», ma riscoprendoli anche come fratelli. Senza questo ultimo e decisivo passaggio, ogni appello per la pace rischia purtroppo di essere illusorio e vano.
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