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«Il ddl Bazoli non è per la “buona morte” ma per la morte di Stato»
NEWS 18 Febbraio 2022    di Manuela Antonacci

«Il ddl Bazoli non è per la “buona morte” ma per la morte di Stato»

Il buon Chesterton l’aveva previsto «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate». Una frase con cui lo scrittore britannico, Gilbert Keith Chesterton, in uno dei suoi scritti più celebri, Eretici, ha inteso denunciare il paradosso del relativismo culturale, oggi, peraltro ormai dominante, che consiste proprio nel dover lottare forsennatamente per difendere l’ovvio, un po’ come ha fatto la Corte costituzionale, che in questi giorni ha dichiarato inammissibile il referendum cosiddetto “sull’eutanasia” ma in realtà sulla “depenalizzazione dell’omicidio del consenziente” (art. 579 del Codice Penale) e il referendum cosiddetto “sulla coltivazione della cannabis”, ma che, in realtà riguardava la coltivazione e il traffico di più sostanze stupefacenti, compresi oppio e coca.

Vere e proprie truffe referendarie smascherate anche dal certosino lavoro del team di legali che il Centro Studi Livatino ha fornito ai Comitati per il NO che davanti alla Corte costituzionale hanno mostrato le ragioni dell’inammissibilità dei due referendum e di cui ha fatto parte anche l’avvocato Francesco Cavallo componente del direttivo del Centro Studi Livatino che ci spiega il lavoro compiuto e gli scenari inquietanti che si spalancherebbero se venisse approvato il ddl Bazoli sul suicidio assistito, che in questi giorni è in discussione alla Camera.

Avvocato, innanzitutto, ci illustra il lavoro dei Comitati per il no ai due quesiti referendari bocciati dalla Consulta?

«Tante associazioni si sono messe insieme e hanno dato vita ai due Comitati per il no ai referendum: quello sull’omicidio del consenziente, presieduto dalla Prof.ssa Assuntina Morresi, e quello relativo all’ammissibilità sul quesito sulla legalizzazione delle droghe, presieduto dal professor Angelo Vescovi. Una volta costituiti i Comitati, questi, con il supporto del Centro Studi Livatino, hanno messo in piedi un team di legali, avvocati, docenti universitari, che hanno approfondito entrambe le questioni, si sono costituti nei due giudizi, davanti alla Corte costituzionale, depositando delle memorie e inviando due professionisti del team a discutere ciascuna delle due questioni in aula. Un lavoro basato su un’importante gioco di squadra che ha dato i suoi frutti e che deve servire di incoraggiamento: certe sfide necessitano di essere affrontate e combattute, e se lo si fa con unità di intenti e competenza tecnica talvolta si vincono pure».

Riguardo il quesito referendario sull’omicidio del consenziente, un autorevole parere è stato quello espresso da Cesare Mirabelli, già presidente della Corte costituzionale, il quale ha affermato che «L’articolo 579 del codice penale, se fosse stato ‘tagliato’ dal referendum, sarebbe andato ben oltre l’eutanasia». Ci spiega il perché e dunque il motivo della bocciatura del referendum?

«Innanzitutto il referendum sull’omicidio del consenziente è stato presentato come referendum “sull’eutanasia”, un vero e proprio imbroglio, perché il referendum aveva ad oggetto l’abrogazione parziale della norma sull’omicidio del consenziente che non ha nulla a che vedere con l’eutanasia, con il rifiuto delle cure, con l’accanimento terapeutico, e nemmeno con l’istigazione al suicidio per come interpretata dalla stessa Corte costituzionale dopo il caso Cappato: in realtà si trattava di altro. Tant’è vero che la Cassazione, quando ha validato le firme per la richiesta del referendum, ha cambiato la denominazione del quesito che i promotori avevano chiamato “eutanasia legale” imponendogli quello più corretto di “Referendum sull’abrogazione della norma sull’omicidio del consenziente”. Come ha spiegato il Presidente della Corte Giuliano Amato in conferenza stampa, se il referendum fosse stato ammesso ci sarebbe stata la possibilità che in futuro si sarebbero verificati effetti paradossali e inammissibili per l’ordinamento. Ad esempio se tra due ragazzini ubriachi, uno dei due, preso dai fumi dell’alcol, avesse sfidato l’altro a investirlo con la macchina e ciò si fosse verificato sul serio, il reato compiuto sarebbe stato depenalizzato: ecco spiegato l’omicidio del consenziente e l’effetto che il quesito avrebbe determinato».

Stesso inganno nella denominazione del quesito referendario sulla cannabis. Contraddizioni che avete sottolineato…

«Sì, lo stesso discorso vale per il quesito che è stato spacciato per la liberalizzazione della coltivazione della cannabis, invece, il quesito mirava a depenalizzare la coltivazione, il consumo e il traffico, non solo della canapa indiana, ma anche dell’oppio, della cocaina, anche delle droghe dette “pesanti”. Anche lì si nascondeva un inganno che la Corte costituzionale ha smascherato».

La bocciatura del referendum sull’omicidio del consenziente ha scatenato le forze politiche che sostengono il disegno di legge Bazoli sul suicidio assistito: oggi stesso si apre la discussione alla Camera. Dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale, in che modo sarà influenzato il dibattito parlamentare?

«Il dibattitto, purtroppo, è estremamente condizionato dall’emotività piuttosto che dall’approfondimento tecnico, però confidiamo che si svolga una discussione serena, che non vengano contingentati i tempi e che il Parlamento affronti queste questioni delicate, con lo stesso scrupolo tecnico e giuridico e non emotivo con le quali le ha affrontate la Corte costituzionale. Non sono questioni che possono essere risolte a colpi di slogan, utilizzando come clava la retorica dei “diritti” e invocando emotivamente “la sofferenza”. Sono questioni estremamente complesse dal punto di vista tecnico, in quanto hanno a che fare con la complessità del nostro ordinamento, per cui auspichiamo che quanto accaduto in sede di Corte costituzionale non determini un’esacerbazione dei toni e la volontà di certe forze politiche di spingere sull’acceleratore per far entrare dalla finestra ciò che è stato respinto dalla porta».

Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro studi Livatino, ha affermato che la proposta sul suicidio assistito «è una 194 spostata dall’inizio al fine vita». In quella non si parla mai di aborto, ma di interruzione volontaria di gravidanza, «in questa mai di eutanasia ma di ‘morte volontaria medicalmente assistita’». Ci spiega meglio il parallelismo?

«Può essere certamente sottolineato che anche nel caso del ddl Bazoli si sta giocando con le parole, perché si continua a parlare di “buona morte” quando in realtà quello che si vuol introdurre con questa norma non è certo un’assistenza dignitosa negli ultimi momenti di vita, ma la morte di stato, cioè la possibilità che l’ordinamento eroghi su richiesta, la morte. Quindi anche in questo caso non c’entra nulla il legittimo rifiuto delle cure che è già garantito oggi dall’ordinamento, addirittura in via anticipata con il discutibile testamento biologico; non c’entra niente nemmeno con l’accanimento terapeutico che è già dalle prassi e dalla deontologia medica vietato; ma la legge che si vuole introdurre ha a che fare con la possibilità di richiedere la morte, di obbligare il medico e l’ordinamento a erogare un “servizio morte”, su richiesta. Ma la risposta che lo stato deve dare alla sofferenza non è certo quella di spingere verso la morte, ma di finanziare le cure palliative e la terapie del dolore per le quali esiste una legge già da dieci anni, ma non è stata mai finanziata, né viene coltivata nelle facoltà di medicina, tant’è che abbiamo pochissimi medici palliativisti, non abbiamo nemmeno strutture sufficienti per la presa in carico dei malati terminali, né viene potenziata l’assistenza domiciliare o le reti di cura dei caregiver familiari che si fanno carico di questi bisogni. È chiaro che se tutto questo non c’è, la sofferenza porta un individuo lasciato solo a chiedere la morte. Lo stato non può però lavarsi le mani sbrigativamente erogando la morte, ma dovrebbe farsi carico di tutta questa sofferenza e organizzare una rete di welfare che se ne prenda cura».


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