Educazione
Quel culto che spetta solo a Dio
07 Febbraio 2015 - 17:00
Adorare è l’atto religioso per essenza, l’espressione esterna, corporale, di quell’atteggiamento interiore che dobbiamo avere quando ci mettiamo alla presenza dell’Onnipotente. Ed è un gesto profetico in un mondo che ha perso il rispetto del sacro
Nel clima attuale di decadenza del culto divino, del rispetto per il sacro e della virtù di religione e, per conseguenza, di sciatteria e disordine nella liturgia, effetto di una mentalità secolaristica, orizzontale, profanatrice ed antropocentrica, che ha un’espressione frequente nell’indifferenza o nell’ignoranza religiose e il culmine nella derisione delle cose sacre, nella bestemmia, nell’ateismo e nell’empietà, non c’è da stupirsi se anche nei nostri ambienti cattolici è molto calata la stima per quell’atto religioso essenziale e caratteristico della religione, che è l’adorazione divina. Alcuni, poi, influenzati dai protestanti, oppongono stoltamente “religione” e “fede”, perché non sanno che cosa sia né l’una né l’altra, come se il rapporto con Dio fosse dato solo dalla “fede”, mentre la religione sarebbe una presuntuosa pretesa di salire a Dio con le proprie opere: in realtà invece fede e religione si richiamano a vicenda poiché nel cammino verso Dio è inscindibile la parte dell’uomo con le opere, tra le quali l’adorazione, e quella di Dio, che attira a sé con la fede. Addirittura molti, sviati da una fede falsa, hanno perso il concetto stesso di adorazione, che è l’atto giusto per rapportarsi con Dio e trattano con Dio quasi fosse l’intimo del proprio io o un prodotto della propria coscienza soggettiva o un facile lasciapassare delle proprie voglie.
Il timor di Dio, protezione dal peccato
Questo calo di stima per l’adorazione va di pari passo, sotto l’influsso di una falsa confidenza in Dio, con la scomparsa del timor di Dio, che, oltre ad essere un aspetto della religione naturale, è uno
dei sette doni dello Spirito Santo e nonostante che la Scrittura insegni a più riprese che il timore del Signore è l’inizio della sapienza (Sal 111,10; Pr 1,7; 9,10, ecc.) e quindi della vera confidenza in Dio.
Infatti il timor di Dio non è altro che quell’atteggiamento interiore di riverenza e massima attenzione e considerazione dei precetti divini e della loro bontà, accompagnata dall’umile consapevolezza della nostra peccaminosità, per cui, temendo il giusto castigo divino, siamo spinti, per amore, alla riparazione e alle opere buone e appunto ad adorare la sua immensa e amabile maestà e a confidare nella sua misericordia. Il timor di Dio è praticamente il timore di peccare, e quindi di non salvarsi. Ma proprio questo timore, non privo di una certa apprensione emotiva, dovutamente moderata dalla consapevolezza di quanto Dio ci ama e quindi libero dallo scrupolo, è ciò che ci impedisce di peccare o ci fa pentire dei nostri peccati e quindi è estremamente salutare.
San Tommaso, nel suo trattato sulla religione nella secunda pars saecundae partis (II-II) della Summa Theologiae dedica un’intera Quaestio, la LXXXIV, all’atto dell’adorazione divina, spiegando che si tratta dell’espressione esterna, corporale, di quell’atteggiamento interiore che dobbiamo avere quando ci mettiamo alla presenza di Dio, soprattutto nella preghiera e nella ritualità liturgica, consci della sua trascendenza e infinita maestà, ma anche bontà e misericordia nei nostri confronti.
L’adorazione si distingue dalla venerazione, detta anche “dulìa”, dal termine greco dulèia, che significa “servitù”. Nell’uno come nell’altro caso, si tratta d i un atteggiamento di sottomissione e di ossequio riverente. Mentre però l’adorazione è una sottomissione assoluta, perché va a Dio, che è l’assoluto, la dulìa va ai santi e quindi ha un carattere relativo e limitato. Tra tutti i santi emerge la Beata Vergine Maria.
Ad essa dunque va una venerazione speciale ed eccelsa, che si chiama “iperdulìa”.
L’adorazione, come tutti gli atti esterni, corre sempre il pericolo di non essere sincera, ossia di non corrispondere a un autentico atteggiamento interiore. Ma oggi esiste un farisaismo alla rovescia, il quale, esagerando il rischio che l’atto esterno sia ipocrita, lo evita di proposito, cadendo in quel farisaismo che consiste nel credere che sia sufficiente un’interiorità peraltro falsa, perché appunto non illuminata da un giusto concetto dell’adorazione. Il problema, quindi, non è di evitare gli atti esterni, ma far sì che essi, retti e regolari in se stessi, siano anche espressione di una retta e sincera condizione interiore.
Alzare gli occhi al cielo
Le espressioni ebraiche con le quali la Bibbia designa l’atto dell’adorazione sono hitavà e sogad, che significano innanzitutto il chinarsi del corpo, come è reso evidente da aggiunte quali “verso terra”. In greco abbiamo la proskynesis, parola composta da pros, che indica “moto verso” e kineo che è il baciare. La adoratio latina è pure parola composta da ad-oro, dove orare, da os, il volto, è il parlare, ma anche il supplicare. Questo inginocchiarsi faccia a terra è rimasto, come sappiamo, nella religione islamica. Noi cristiani abbiamo la tradizione della genuflessione o dello stare in ginocchio, che purtroppo, però, a causa della suddetta mentalità secolaristica e profanante, è caduta molto in disuso, tanto che, come sappiamo, gli inginocchiatoi sono scomparsi da molte chiese, sostituiti da banali sedie.
Altro segno di adorazione, più legato all’espressione della supplica o dell’invocazione, è l’innalzamento dello sguardo verso il cielo, che troviamo in alcuni episodi della vita stessa di Gesù e che è pur tradizionale nella vita religiosa del passato, anch’esso purtroppo largamente caduto in disuso. Il Canone Romano della Messa prescrive che il celebrante, prima della consacrazione, sollevi lo sguardo verso l’alto, benché pochi sacerdoti si attengano a questa norma. Così pure è buffo e ad un tempo triste notare come nella recita del Padre nostro, Padre che è nei cieli, molti, invece di tenere sollevato lo sguardo, lo volgono a terra. Gli stessi soffitti delle chiese un tempo erano abbelliti da stupendi affreschi, che rappresentavano i santi del cielo, e ciò appunto perché i fedeli sollevassero lo sguardo verso queste suggestive immagini del cielo. Ma chi oggi ha questo gusto e questa avvertenza? Solo i turisti di passaggio. Ci si guarda in faccia gli uni con gli altri, forse un po’ annoiati, come fossimo semplicemente in un’assemblea politica o condominiale.
L’adorazione è strettamente legata alla contemplazione. Questa è il gusto di ammirare con amore e devozione la bellezza della verità divina. Quella è il cuore, l’anima, la volontà e tutto noi stessi che esteriormente mostrano la propria sottomissione a Dio, il riconoscimento della sua infinita grandezza e maestà, la gratitudine per i doni ricevuti, la richiesta del perdono per i propri peccati, la formulazione di buoni propositi alla luce di Dio.
Come un anticipo della visione beatifica
Caratteristica del culto cattolico è l’adorazione eucaristica, anch’essa purtroppo in ribasso in molti luoghi a causa dell’influsso protestante, che ammette la presenza di Cristo nel memoriale della Cena del Signore solo al momento del rito. E questo perché nel luteranesimo si è perso di vista il fatto che l’Eucaristia non è solo cibo e bevanda, ma è anche presenza vivificante di Dio fra di noi sotto le specie eucaristiche, quasi a voler anticipare la gioia della futura visione beatifica. In quella bianca ostia l’occhio, è vero, sembra smarrito e privo di gusto, ma l’intelletto nella fede sa e gode di essere davanti a Dio, a pochi metri da Gesù eucaristico, Signore del cielo e della terra, Salvatore dell’uomo, racchiuso in un umile tabernacolo o esposto nell’ostensorio.
Sa che dietro a quelle umilissime e quasi insignificanti apparenze dell’ostia consacrata si nascondono infiniti tesori di verità, di bellezza, di bontà, di beatitudine, di onnipotenza, di salvezza universale. Un Dio che ci guarda e che noi guardiamo, come diceva san Giovanni Maria Vianney.
Certo Dio è dappertutto, ma resta sempre vero che questa onnipresenza non vale per il credente tanto quanto vale la presenza eucaristica, così proporzionata a noi, esseri posti nello spazio-tempo e che intendono per mezzo dei sensi. Ma l’adorazione ha il suo culmine nella presenza, anzi nell’inabitazione della Trinità nella nostra anima in grazia, per cui noi viviamo della stessa vita divina e adoriamo Dio nascosto nell’intimo di noi stessi. A questo punto è significativo l’uso dell’adoratore di chiudere gli occhi.
Alla ricerca del tabernacolo perduto
Gesù sacramentato vuol restar fra noi nel tabernacolo per consigliarci, consolarci, spingerci all’azione e ad ogni virtù. È triste pertanto che, entrando in certe chiese, non ci sia modo di sapere dov’è il Santissimo, in contravvenzione alle precise disposizioni del Concilio Vaticano II, il quale ordina che il tabernacolo sia in buona evidenza e chiaramente segnalato dall’apposita tradizionale lampada.
Invece in certe chiese piene di lumini, uno si mette alla ricerca del tabernacolo e si trova invece davanti alla statua di santa Rita o sant’Antonio.
Occorre tornare a educare le nuove generazioni all’importanza somma del mistero eucaristico nella vita di ognuno. Solo così potremo recuperare la stima per l’adorazione divina, la quale peraltro dovrebbe esser già di per sé, come dimostra l’Aquinate nei testi riportati, un atto della semplice religione naturale, che affratella tutte le religioni monoteiste, opponendole a quelle idolatriche, panteiste e politeiste. È certo che anche in queste, come è già denunciato dalla Bibbia, esistono atti di adorazione, ma a false divinità, che rischiano di essere maschere del demonio. Agli estremi di queste aberrazioni abbiamo il vero e proprio culto di Satana.
Viceversa nella religione cattolica la naturale propensione all’adorazione della divinità, propria del cuore umano come tale, viene sublimata e purificata dalla fede, la quale ci insegna che il Verbo incarnato vuol essere adorato qui in terra sotto le specie eucaristiche. Grazia grande è quella del cattolico, il quale, davanti al tabernacolo, sa di essere misteriosamente ma realmente davanti al Figlio di Dio sacramentato, il quale, se nel suo corpo con i suoi accidenti ora è in cielo alla destra del Padre, nel contempo questo adorabile corpo,
a modo di sostanza, senza gli accidenti propri, ma sotto le specie eucaristiche, insieme col sangue, anima e divinità, è qui davanti a me nel tabernacolo a poca distanza da me, come mio Signore, ma anche quasi come un amico, un fratello, un maestro, uno sposo. Quale consolazione! Quale luce! Quale forza! Da qui tutti i santi hanno sempre ricevuto una luce e una forza stupende, che li hanno guidati e sostenuti nelle loro grandi imprese per la salvezza dell’umanità. â–










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