Educazione
Spigolature mariane
31 Gennaio 2014 - 06:03
Qualcuno dirà che sarebbe meglio darsi a letture più recenti, a saggi editi dopo il Vaticano II, segnati da sensibilità “diversa”. Ebbene, questo qualcuno non avrebbe ragione, perché non molto è cambiato, le speranze degli entusiasti del dialogo ecumenico si sono rivelate illusorie; anche, anzi soprattutto, qui. Come del resto era prevedibile e come non mancò di prevedere, con onesta franchezza, il pastore Miegge. In effetti, il protestantesimo è prigioniero di uno dei suoi tanti aut-aut: o Gesù o Maria e tutti i santi. Cristo è il solo, l’unico mediatore tra l’uomo e Dio, non è possibile affiancargli qualcun altro. È non solo inutile ma addirittura blasfemo rivolgere altrove le preghiere, raccomandarsi alla Madre significa togliere al Figlio il suo ruolo e, dunque, non vuol dire onorarlo ma offenderlo. Questo schema irreformabile è già presente nei primi riformatori, Lutero e Calvino i quali, tuttavia, conservano ancora qualcosa della grande eredità mariana precedente. Magari anche per opportunismo, per non provocare rifiuto nella folla dei devoti. Significativo che – soprattutto nei Paesi scandinavi, dove il protestantesimo fu imposto con la forza, e spesso la violenza, dall’alto, per decisione regia, a un popolo che non chiedeva affatto una riforma (anche perché, lì, l’evangelizzazione era ancora relativamente recente) – significativo, dunque, che si temporeggiò prima di chiudere i santuari mariani dove il popolo pellegrinava. Invece di una soppressione immediata, che avrebbe potuto provocare la rivolta dei fedeli, si optò per l’estinzione progressiva, per esempio impedendo alle famiglie religiose che gestivano quei luoghi di culto a Maria di ricevere novizi, così che in un paio di generazioni quelle congregazioni si spensero. Comunque, nei secoli, soprattutto a partire dal Sei-Settecento, gli eredi dei primi riformatori irrigidirono sempre di più lo schema ideologico dell’aut-aut, sino a giungere a una quasi totale rimozione di Maria, ridotta a semplice fedele tra i molti altri nella Chiesa.
Se così stanno le cose, il massimo che lo sforzo ecumenico può ottenere è qualche frase di cortesia, l’abbandono della polemica più acre, ma non certo l’accettazione per la Vergine di uno status privilegiato che non entra, non può entrare nell’alternativa che è, in tutto il Credo e non solo qui, il marchio di fondo del protestantesimo: non il “vogliamo tutto” cattolico (Lei e Lui, seppure in gradi e modi diversi: latrìa e iperdulìa, per usare i termini tomistici) bensì: o Lei o Lui.
Vedo, negli appunti che presi dalle lettura di Giovanni Miegge, quanto sia esigente l’apriorismo ideologico. Per esempio: nei Padri antichi, sia greci che latini, si trovano spesso esortazioni ai fedeli a rivolgersi fiduciosi a Maria. Addirittura nel Sub tuumpraesidium, che è degli inizi del terzo secolo, c’è in nuce tutto il contenuto dei dogmi cattolici (e ortodossi) successivi. L’imbarazzo del teologo valdese davanti a simili testimonianze è superato parlando di «devoti paradossi», di «pensieri elementari volti alla cura d’anime dei deboli nella fede», di «parole per le plebi cattoliche, ancora impelagate nell’oscuro fondo pagano delle Grandi Madri». Addirittura, di fronte a espressioni imbarazzanti di nascita del culto e della devozione mariani, Miegge se la cava parlando di «bonarie ironie» di quei santi Padri della Chiesa. Insomma, una sorta di presa in giro, su materie di fede così fondamentali, dei credenti nel Cristo.
Non mettono a disagio il teologo protestante neanche le ultime parole di Gesù secondo Giovanni: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lui il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “ Ecco tua madre!”.
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé». Commento sbrigativo del pastore Miegge: «Si tratta semplicemente di un commovente particolare biografico». E, questo, per contrastare, come ovvio, la Tradizione che – sin dall’inizio – vide in Giovanni, solo maschio rimasto nell’ora suprema accanto al Signore, il rappresentante della umanità intera. E in Maria la madre amorosa che il Cristo morente donava ad ogni uomo e donna, sino al suo ritorno. Per il valdese, invece, è solo «un commovente particolare biografico», una sorta di cenno di cronaca. Il che è particolarmente sorprendente, anche perché la critica biblica protestante tende ad escludere la storicità degli eventi raccontati nei Vangeli, vedendo dietro ad essi non la cronaca ma il simbolo, il mito, la catechesi, il motivo apologetico, aggiunti dai redattori cui si dovrebbe la stesura e l’ampia manipolazione dei testi canonici. E invece, qui, ecco che viene respinta l’interpretazione simbolica di tutta la Tradizione per convincerci che si tratta solo di un particolare descrittivo.
Insomma, il pastore Miegge riassume la posizione non soltanto sua ma dell’intero mondo riformato: «Per il Nuovo Testamento, il ruolo di Maria è del tutto occasionale e passivo ». Un altro valdese, Aurelio Penna, in un manualetto recente che spiega quale sia la prospettiva generale del protestantesimo afferma: «La madre di Gesù è una figura secondaria, di contorno. Una protagonista, tra molti altri, della storia della Rivelazione divina. Una storia, comunque, assai più grande di lei». In un altro testo attuale, si ricorda (condividendolo) l’antico aneddoto di un principe bizantino, polemico verso quelle che considerava le esagerazioni mariane della Chiesa ortodossa. Chiamò dunque di fronte a sé il metropolita del luogo ed altri religiosi e mostrò una borsa di pelle piena di monete d’oro. Poi la vuotò sul tavolo e disse: «Così, dopo il parto, era quella Maria che voi onorate senza discernimento. Finché portava Gesù nel suo ventre, era di un valore superiore a quello di tutte le altre donne. Ma, dopo che si è sgravata del Cristo è tornata come ogni altra e non ha in sé alcun valore particolare ». Un contenitore di carne, insomma, una sorta di utero in affitto. Se queste sono le prospettive, a che può portare un dialogo, per volenteroso che sia? E in effetti, non è un caso che l’editrice ufficiale dei Valdesi riproponga oggi un testo del 1950, “aggiornato” sì, ma solo per includere il Vaticano II e, ovviamente, respingerne i testi, che «null’altro fanno se non riproporre la dottrina cattolica di sempre la quale, come sempre, è da noi inaccettabile». Non si tratta di particolari accessori ma, lo dicevamo, dell’impianto teologico stesso che impedisce persino di comprendere la prospettiva romana, ma anche ortodossa, che non a caso è considerata (parola di Karl Barth che già abbiamo riportato) «un cancro del cristianesimo, una escrescenza che, come tutti i tumori, va rescissa».
Sacrosanta intenzione, questa dei Padri conciliari. Intenzione che ha mobilitato molte attenzioni e molte energie nella Chiesa: in effetti, nei primi decenni dopo il Vaticano II, in buona parte della teologia e della pastorale – in libri, articoli, convegni, omelie – è stato un gran parlare di “segni dei tempi” e della necessità di adeguarvisi. Era diventato un luogo comune, soprattutto in ambienti di cattolici sedicenti “progressisti”. In effetti, seguendo l’onda dei tempi, il pur doveroso discernimento si è applicato quasi solo alle problematiche sociali, se non politiche. Così, vi fu un tempo in cui molti, nella Chiesa, sostenevano – spesso polemicamente contro i confratelli che definivano “conservatori” se non “reazionari” – che il principale segno dei tempi era il passaggio delle masse lavoratrici al comunismo. Dunque, bisognava adeguarsi, scindendo ogni rapporto con la borghesia e valorizzando nel Vangelo soprattutto ciò che poteva coinvolgere coloro che credevano nel “sol dell’avvenire”, coloro che si battevano per l’imminente “dittatura del proletariato”. Chi ha vissuto quegli anni ricorda movimenti come i “Cristiani per il socialismo” secondo i quali – in nome, appunto, della lettura dei “segni dei tempi” – compito dei credenti autentici era il fiancheggiare, il benedire, l’incoraggiare con opportune citazioni bibliche (ovviamente staccate dal contesto) il popolo in marcia verso il “domani che canta”. Nelle facoltà teologiche tedesche e nelle case religiose francesi e spagnole si elaborò quella “teologia della liberazione” di impronta marxista che fu esportata soprattutto in America Latina e che era talmente segnata dalla prospetti- va comunista da provocare la decisa condanna di Roma. Condannata a sua volta dai “Cristiani per il socialismo” come retrograda e insensibile ai tempi nuovi che stavano per sfociare nel trionfo del proletariato.
In questo fervore politico, molta intellighenzia clericale e anche (va pur detto) una parte della Gerarchia non seppe discernere, anzi talvolta additò al disprezzo come “alienante devozionismo”, il vero, grande “segno dei tempi” del periodo postconciliare. Un periodo, cioè, in cui tutti gli indicatori cattolici tesero rovinosamente al ribasso, dalla frequenza alla messa e ai sacramenti, alle vocazioni sacerdotali e un solo indice registrò una crescita: l’affluenza, cioè, ai santuari, soprattutto quelli mariani. Lourdes, ad esempio, dal milione di pellegrini degli anni Sessanta, giunse a superare i sei milioni e davanti alla Grotta (come in tanti altri luoghi di devozione alla Vergine) si incontravano molti di coloro che disertavano le loro parrocchie. Ma a questo “segno dei tempi”, tanto evidente quanto rimosso con fastidio da molta teologia e pastorale di quegli anni, se ne affiancò un altro, complementare: il pullulare, cioè, di nuove vere o presunte “apparizioni mariane” che determinarono la nascita di inediti “santuari”, anche in qualche modo “selvaggi” perché non riconosciuti dalle autorità ecclesiali.
Nel disinteresse, se non talvolta la diffidenza ostile dei vescovi e dei confratelli sacerdoti, senza mezzi, lasciato solo nella sua ricerca, l’ottimo, tenace, preparato abbé René Laurentin fu praticamente il solo che abbia tentato un censimento e una prima valutazione del fenomeno, che ha registrato decine di manifestazioni dopo il Vaticano II. Una “moltiplicazione di apparizioni” che era, ed è tuttora, il “segno dei tempi” che più attirava le folle ed al contempo il più volutamente ignorato dalla “cupola” clericale. Tanto che nella maggioranza dei casi i vescovi del luogo non aprirono neanche le indagini, pur doverose, su queste voci di manifestazioni del Soprannaturale. Secondo Laurentin, in questi decenni spesso si è trasformata quasi in rifiuto previo la doverosa, sacrosanta prudenza della Gerarchia di fronte a quella irruzione dell’Aldilà che è una apparizione, irruzione la cui credibilità va vagliata – certo – con il massimo scrupolo. Restando aperti, però, alla possibilità che simili fenomeni siano possibili e che, se veri, hanno qualcosa di molto prezioso da comunicarci. Secondo il mariologo francese, se Bernadette fosse stata affidata al giudizio di un collegio di psicologi, psicanalisti, psichiatri e altri specialisti del genere di oggi sarebbe stata curata e non ascoltata. Altrettanto, aggiunge, per i tre pastorelli di Fatima. Discorso complesso, al quale già abbiamo accennato altre volte e sul quale probabilmente ritorneremo con maggiore ampiezza. Qui, basti avere segnalato che di quei “segni dei tempi” che Gesù ci invita a scrutare e interpretare (come il Concilio ci ricorda) fa parte non minore la presenza di Maria che continua ad esercitare il suo ruolo materno per il popolo dei Dio.
IL TIMONE N. 102 - ANNO XIII - Aprile 2011 - pag. 64 - 66










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