Educazione
Tra odio e perdono
31 Gennaio 2014 - 06:01
Il 9 agosto 1947, morendo di tubercolosi a 21 anni di età, per una ferita infertagli dai comunisti di Reggio, il partigiano bianco Giorgio Morelli annotava: «Forse questa giornata terrena potrebbe non vedere l'alba di domani. Non mi spaventa la morte. Mi è amica, poiché da tempo l'ho sentita vicina, in ore diverse: sempre bella... Oggi la mia confessione ultima sarebbe questa: l'odio non è mai stato ospite della mia casa».
Ecco, l'odio e l'amore, sentimenti di segno contrario, che tuttavia sono sufficienti a individuare due universi del tutto incomunicabili: quello della fede e quello dell'ideologia. Quello in cui all'uomo viene riconosciuta la dignità di figlio adottivo di Dio e quello in cui quello stesso uomo viene trasformato in strumento o, per usare un'espressione di Vittorio Messori, in «mattone di carne» e dunque sacrificabile a piacere, per costruire la piramide di un mitico avvenire.
La piramide di quel mitico avvenire qualcuno pensò bene di erigerla anche in Italia, nell'immediato dopo guerra. E il luogo scelto per l'esperimento in corpore vili, come avrebbero detto i medici di una volta, fu la terra che Giovannino Guareschi ci ha fatto conoscere come la Bassa. La pianura che si stende lungo l'antica Via Emilia, con vertici a Bologna e Reggio e centro a Ferrara. Qui la guerra partigiana si prolungò nel tempo ben oltre il tardo aprile del 1945, disseminando di migliaia di cadaveri le campagne. Questo pezzo di terra verrà così ricordato con il nome di "triangolo della morte". Vi si verificheranno decine di migliaia di assassinii, a opera di bande che riuscirono a eludere il controllo delle autorità.
Poi, poco per volta, addirittura fino ai primi anni Cinquanta, quelle salme riaffioravano, venivano identificate, facendo così diminuire il numero dei dispersi. Un intero popolo ritornava alla luce e non era il popolo dei torturatori, dei fascisti, dei gerarchi. Era un popolo fatto di gente qualunque, che aveva vissuto prima la guerra e poi la guerra civile come una dura necessità. Erano contadini abbienti, impiegati, borghesi, molte donne, numerosissimi preti. Non pochi dei quali avevano affrontato la morte con la dignità di autentici testimoni di Cristo.
Perché tutto questo? Perché su questi innocenti o comunque su queste figure di terza e quarta fila del passato regime si era accanita la vendetta partigiana con una tecnica che richiamava da vicino l'eliminazione di tanti cittadini sovietici, che le "purghe" staliniane avevano trascinato via con sé, nella sentina della storia? La risposta, in un primo momento, sommersa dall'euforia dei canti della liberazione, incominciò poco a poco a farsi strada, ma ancora oggi non sono pochi coloro che preferiscono non ascoltarla.
Accusando di "revisionismo" quanti invece grazie a quella risposta sono in grado di spiegarsi vicende - altrimenti inspiegabili - della nostra storia più recente.
C'è intanto da dire che importanti segmenti del PCI del tempo - si pensi soltanto a Pietro Secchia, uno dei massimi dirigenti del Partito - erano seriamente convinti della necessità di una "seconda guerra civile". Una guerra civile, cioè, assai più radicale della prima, grazie alla quale venissero spazzati via, come era avvenuto con i kulaki nell'URSS degli anni Venti, tutti gli esponenti della classe media. Uno sterminio di classe, dunque, razionalmente programmato e metodicamente realizzato. Così come avrebbe dovuto esserlo e spesso lo fu, per espressa ammissione di Claudio Pavone, l'intera guerra partigiana in Italia. Una guerra certamente patriottica e civile, ma anche e soprattutto di classe. Una guerra perciò che, per la sua stessa natura, non poteva risparmiare quanti per il loro proprio status erano irriducibili all'ideologia materialistica del comunismo. Primi fra tutti, i sacerdoti.
Ebbe così inizio, nella regione dove più massicciamente il PCI si era imposto al potere, l'Emilia e Romagna, la stagione del sangue. Quelli che Giampaolo Pansa chiama nel suo recente best seller i "giustizieri" ebbero mano libera dai vertici del PCI locale e nazionale.
Gli assassini che sparavano alle spalle; i violatori delle canoniche, i cui portoni sfondavano a colpi d'ascia per poi sventagliare sui preti qualche raffica di mitra; gli uomini dalla rivoltella facile che, con grande "professionalità" facevano fuori i partigiani cattolici, che intralciavano "la marcia vittoriosa del proletariato", furono tutti dirottati oltre confine. Nella Jugoslavia di Tito o nei più lontani paesi dell'Est, da cui, vent'anni più tardi, sarebbero poi ritornati sui luoghi dei loro delitti, come pacifici turisti. Si continuò così, senza che nessuno osasse fiatare, sino a quando Palmiro Togliatti, che come Guardasigilli aveva visto e taciuto, pensò bene di gettare qualche palata di terra sopra quello che ancora Pansa chiama il "verminaio" emiliano. Nel frattempo, tra l'altro, le sfere d'influenza si erano consolidate e l'Italia era finita -l o volessero o meno i giustizieri - in quella occidentale. E sotto l'ombrello dei missili NATO, anche ai geometri del "triangolo della morte" conveniva, per il momento almeno, far mostra di aver disimparato la propria geometria.
Una "banda" all'opera nel famigerato "triangolo"
Ma veniamo ai fatti, almeno a quelli relativi a una delle diverse bande che insanguinarono il "triangolo". Due uomini, Vittorio Bolognini - nato nel 1921, già conosciuto per aver assassinato diversi partigiani - e Dante Bottazzi - giovane ventitreenne, ex seminarista -, furono gli ideatori e probabilmente fra gli esecutori materiali del tentativo di fare della Bassa una sorta di laboratorio rivoluzionario in territorio italiano. Il luogo in cui la "mala pianta della borghesia" sarebbe stata radicalmente estirpata.
Già il 16 maggio 1945 la premiata ditta Bolognini & Bottazzi esordiva eliminando, in rapida successione, prima un droghiere, Bernardo Giovannoni, poi un agricoltore, Mario Boni, infine - e il colpo suscitò tanto clamore da portare rapidamente alla celebrità i due killer - l'ex federale fascista di Cuneo. Quest'ultimo si chiamava Ronza ed era fuggito dal furgone che lo trasportava, con tanti altri, al campo di concentramento di Coltano. Ma il destino di Ronza era comunque scritto ed era un destino assurdo, perché egli fuggiva da un lager per venire a cercare rifugio nel cuore del "triangolo della morte". Quello che lo perse fu un rotolo di banconote, che egli srotolò sotto il naso di due contadini della zona, per spingerli a cedere a lui e ai suoi due compagni di fuga tre biciclette.
Individuato e segnalato, il gruppo fu liquidato dalla premiata ditta con alcuni colpi in rapida successione. Che non possono non richiamare alla mente la tecnica usata dalle Brigate Rosse, vent'anni dopo. Poi toccò ad un guardiacaccia; a due donne; a don Giuseppe Tarozzi, parroco di Riolo, che aveva seguito Bottazzi nella scelta del seminario; ad altre due donne, accusate, senza alcuna prova, di essere state spie al servizio del fascismo; ad alcuni industriali locali.
A quota 34, finalmente, le autorità decisero di aprire le indagini. Sulle piste di Bolognini e Bottazzi furono sguinzagliati un capitano dei carabinieri e un maresciallo sardo, uno di quelli che, durante gli interrogatori, non mollano la presa. La stampa di sinistra parlò di torturatori fascisti, ma la premiata ditta si sentì sul collo il fiato caldo della giustizia. Intanto anche Togliatti aveva deciso di dire basta, sicché a quota 39 i due protagonisti di questa storia ritennero che per loro sarebbe stato più salubre cambiare aria.
L'8 marzo 1951, ventitré membri della banda furono condannati dalla Corte d'assise di Modena, ma si trattava di semplice manovalanza. Dei due capi si persero le tracce. O meglio, si persero di Bolognini. Di Bottazzi sappiamo tutto o quasi. Espatriato nella Jugoslavia di Tito, fu coinvolto nella purghe antistaliniane dei primi anni Cinquanta. Ospite del lager di Goli Otok, la terribile Isola Calva, da cui ben pochi fecero ritorno, egli riuscì invece a fare ritorno.
Vent'anni dopo, passeggiava, come un tranquillo pensionato, per le strade di Castelfranco. Anche l'inferno l'aveva risputato.
Dossier: Il "Triangolo" dell'odio e della vergogna
IL TIMONE – N.39 - ANNO VII - Gennaio 2005 - pag. 39-41










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