Sabato 13 Dicembre 2025

Trasfigurato da Cristo

 

 

 


Aldo Trento è un sacerdote capace di carità sconfinata.
Perché è stato trasformato da Cristo. Da prete ribelle, schiavo dell’ideologia e innamorato di una donna a sacerdote che in terra di missione testimonia l’amore di Dio e una grande fedeltà alla Chiesa


 

«Il primo fattore evidente nella mia vita è l’elezione divina: Dio sceglie e quando sceglie è per sempre.
Il problema è la libertà dell’uomo di riconoscere questo fatto».
Padre Aldo Trento, classe 1947, dal 1989 missionario in Paraguay, torna e conduce all’essenziale. Impastato di sapiente evangelica semplicità e di concretezza fattiva, solida come le montagne del bellunese in cui è nato, sa di essere al mondo per amare Gesù. Questo è l’assoluto che non gli dà pace.
A undici anni, facendo l’autostop, raggiunge con un trattore il seminario dei Canossiani. Un fatto gli è chiaro: la vocazione al sacerdozio è la sua carne e nessuna bufera della vita potrà scalfire il suo sì. L’altra evidenza che segna i suoi giorni si chiarirà nel tempo, ma già traluce da quel viaggio in trattore sotto lo sguardo attonito della mamma: lo zelo per la casa di Dio che lo divora ha bisogno di una compagnia, di qualcuno disponibile a offrire un passaggio nella direzione giusta e a condividere il cammino quando la strada si fa pesante.
Diventato sacerdote nel 1971, vive nella sua carne la prova drammatica che scuote la Chiesa: «Gli anni Settanta mi hanno travolto ideologicamente. Il cristianesimo moralistico, assente dalla vita (che è stato la causa della fortuna del comunismo),  mi ha fatto cadere nelle braccia dell’ideologia. “Quello che vale è il pubblico, non il privato”, si diceva all’epoca. E io vivevo così: pubblicamente sognando e per conto mio facendo un sacco di stupidate. Nel 1974 ero a Battipaglia, perché i miei superiori mi cambiarono di casa, pensando che così sarei cambiato. Si erano dimenticati che non è il luogo a cambiare la persona, ma è la persona che eventualmente cambia il luogo. Lì – insegnavo religione in un liceo – durante una contestazione contro l’imperialismo alcuni ragazzi mi hanno detto: “Non è così, professore, che si cambia il mondo: il mondo cambia se cambia il suo cuore. E Lei dovrebbe insegnarci che il cuore cambia se incontra Cristo”. È il mio inizio con Comunione e liberazione».
Il tempo custodisce la speranza di quell’illuminazione, ma la vita di padre Aldo si fa durissima, lacerata dal desiderio del bene assoluto e dall’incapacità di amare. È l’esito tremendo dell’ideologia in una umanità di impressionante grandezza.
Ancora una volta la grazia del cambiamento arriva in modo imprevedibile: «L’incontro che rompe definitivamente con l’ideologia è quello con una giovane vedova di cui mi innamoro. Data la mia educazione moralistica, questo mi ha messo a ko: pensavo fosse peccato. Per mesi ho sofferto le pene dell’inferno, finché alla vigilia dell’Annunciazione del 1988 don Luigi Giussani, vedendomi piangere, mi chiede: “Che cosa ti succede?”. “Mi sono innamorato”. E lui: “Che bello: finalmente diventerai un uomo”. Mai avevo ascoltato nella vita della Chiesa un uomo così uomo che vedeva in questo fatto una grazia di Dio. Io volevo capire come quello che vivevo poteva coniugarsi con la mia vocazione, alla quale non avrei mai rinunciato, a costo di morire. Giussani mi ha detto: “È una grazia per te, per la Chiesa, per Comunione e liberazione e per lei”. Che cosa potevo capire io? Ero totalmente in crisi, depresso al punto che mio fratello voleva ricoverarmi... e Giussani decise di mandarmi in Paraguay».
Il fondatore del movimento di Cl spazza via ogni tentazione moralistica, persino su una questione tanto delicata. Padre Aldo si sente compreso e amato, passa alla Fraternità San Carlo Borromeo (i sacerdoti missionari di Cl) e la sua vita cambia volto: «Don Giussani mi disse: “Se tu vuoirealmente non perdere quella donna, devi perderla, come dice il Vangelo”. Non mi ha mai lasciato tagliare ogni contatto, perché sarebbe stato più comodo per me, ma sarei tornato il prete di prima con mille amanti: non più l’ideologia, ma il borghesismo, la carriera, l’insegnamento, la pastorale, la bella casa. Dall’abbraccio di don Giussani è nata la città dell’amore che è la parrocchia attuale di San Rafael, ad Asuncion.
Intorno alla mia povera persona, preoccupata solo di capire quello che Cristo voleva da me, è nata quella città dove tutti trovano rifugio, soprattutto gli straccioni delle strade, i moribondi, i malati delle favelas e dei marciapiedi, i malati di Aids». Nella voce roca di padre Aldo l’eco del casigliano si mescola alla lieve cadenza veneta, svelando un fiorire di carità: l’ospedale per malati terminali, un consultorio, le casette di Betlemme per i bimbi resi orfani dall’Aids, una casa di riposo per anziani, una scuola, una fattoria, persino una casa editrice e una pizzeria.
Ogni opera ha la propria storia, sempre la stessa: qualcuno ha bisogno, soffre, è abbandonato e padre Aldo si fa incontro a Gesù nel servire l’umana miseria. Non per quel pauperismo ingenuo che fa danno un po’ ovunque, ma per un amore totale che non dimentica la propria radice. Così spiega l’operosità che rende unica la parrocchia di San Rafael: «Dio ha usato me, un pover’uomo, perché per mostrare la Sua misericordia ha bisogno del peccato degli uomini: i farisei lo lasciano disoccupato, mentre i peccatori lo fanno lavorare. E Lui è venuto al mondo per lavorare, cioè per perdonare».
Un simile fervore di carità si fonda su una fede solida e su una prospettiva culturale cattolica, cioè universale. Padre Trento non è uno sprovveduto, ma un uomo trasfigurato da Cristo, capace di carità sconfinata e, insieme, di un giudizio lucido sul mondo. In un Paese di cui è presidente un ex-vescovo ribelle alla Chiesa di Roma, votato dalla maggioranza dei preti e delle suore in opposizione alla Santa Sede, il missionario italiano si è opposto con pochi altri alla sua elezione, ricavandone scherno e incomprensioni.
Padre Aldo, perché allora vale la pena di restare ad Asuncion? «Innanzitutto perché è evidente che è quello che Dio vuole da me. Poi credo che Dio ci chieda di stare in questo Paese, in cui la Chiesa sembra non esistere più, per indicare la fedeltà al Papa.
Il peccato più grave di tanti nella Chiesa paraguagia è il complesso antiromano e la sottile, farisaica coscienza che, in fondo, Cristo non sia sufficiente per salvare l’uomo, che il problema sono la pastorale, i mezzi umani e non l’annuncio della bellezza di Cristo morto e risorto per tutti. Per questo, con grande fatica economica, ogni mese pubblichiamo il magistero del Papa su un giornale laico, in un fascicolo che viene venduto in tutto il Paraguay. La gente ama il Papa, però non c’è l’obbedienza effettiva e affettiva. E questa è una delle mie sofferenze più grandi».
Le parole rivelano un uomo che in ogni fibra porta scritti il dramma del vivere e la certezza di essere stato salvato. Certo non a caso la Provvidenza lo ha trapiantato sulle terre in cui dal Seicento sono fiorite le Riduzioni gesuitiche. Nell’ultima edizione del Meeting di Rimini ha presentato una mostra su questa esperienza di cristianesimo felice. Nella vicenda della Compagnia di Gesù in Sudamericaha messo in evidenza proprio il tema della bellezza, affermando che «non si può cambiare il Terzo mondo nel Primo senza l’esperienza della bellezza».
Di qui sgorga anche la vita di padre Aldo: «C’è una teorizzazione della povertà intesa come disordine. Mentre la bellezza è lo splendore della verità: la chiesa pulita, il bagno pulito, la camera pulita è l’evidenza che c’è Cristo. Ma se le sagrestie, le chiese, i tabernacoli sembrano depositi, come può uno amare Cristo? I gesuiti hanno insegnato questo: lo splendore di oro delle opere d’arte, l’ordine, la precisione, la pulizia, il culto del corpo nel senso cristiano. Se il povero non vede il paradiso oggi – che già vive nell’inferno – come può amare Cristo?».
È l’antica storia delle missioni gesuitiche: salvare le anime per la gloria di Dio. Lo sguardo bambino e quasi trasparente di padre Aldo si infiamma: è questo il senso del vivere e del morire, del partire e del restare, del curare la liturgia e dell’accogliere i malati. A qualsiasi latitudine, senza differenze tra chi va in missione e chi rimane nella quotidianità minuta di casa propria: «L’unica cosa eroica che faccio è dire a Gesù sì nelle cose più banali della vita». 



 

 

 

 

 

 


 

IL TIMONE  N. 90 - ANNO X II - Febbraio 2010 - pag. 52 - 53

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