Scavare dentro i numeri. Questo è ciò che è urgente fare se si vogliono comprendere fino in fondo – senza contentarsi delle semplificazioni giornalistiche – le implicazioni delle 2.500 pagine nelle quali sono confluiti i due anni e mezzo di lavoro della Commissione indipendente sugli abusi sessuali nella Chiesa avvenuti in Francia tra il 1950 e il 2020. 70 anni nel corso dei quali sarebbero avvenute violenze a migliaia: 216.000 a carico di sacerdoti, che lievitano a 330.000 se si considerano anche quelle agite da funzionari laici della Chiesa.
Ora, dinnanzi a numeri tanto spaventosi è anzitutto doveroso riservare un pensiero alla vittime di quegli abusi, che hanno certamente avuto la vita segnata da pedofili preti che hanno profondamente ferito la loro esistenza; non per nulla, si stima che almeno il 20% delle vittime degli abusi di autorità religiose abbia poi tentato il suicidio. Quanto agli autori di quelle aggressioni, specialmente se a danno di bambini (talvolta, le vittime dei predatori francesi in talare erano adulti), è già stato detto tutto da Gesù stesso nel Vangelo: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare».
Detto ciò, sul pur mostruoso report d’Oltralpe urgono delle considerazioni. La prima: il numero degli abusi, così come quello dei preti predatori – considerati tra 2.900 e 3.200 -, sono stime. Per la precisione, stime elaborate effettuando una media sulla base dell’incrocio dei dati raccolti con metodologie differenti. In realtà, c’è chi afferma che siano addirittura sottostime, ma non va nascosta la possibilità che, invece, si tratti di stime eccedenti il dato reale; per il semplice fatto che oltre 4.700 abusi l’anno – in pratica 13 al giorno – con oltre 40 nuovi sacerdoti violentatori all’anno, ecco, paiono oggettivamente troppi.
Beninteso: anche un singolo caso di abuso costituisce un crimine senza pari e inescusabile. La necessità di comprendere un fenomeno obbliga però a metterlo a fuoco nelle sue reali dimensioni, e c’è il sospetto che nei dati del pur interessante report francese vi sia qualche eccesso. Si è appena detto «interessante» perché, nelle ricerche confluite nel documento, ve ne sono alcune che indicano un dato ineludibile: in oltre il 76% dei casi le vittime dei preti predatori sono di sesso maschile, quando invece nella società sappiamo che sostanzialmente lo stesso dato ritorna sì, ma rovesciato: le vittime di abusi sono in larga maggioranza femmine.
Certo, è vero pure – come registrato da una ricerca pubblicata nel 2012 sul Journal of Child Sexual Abuse – che negli anni la quota di preti autori di violenze sul sesso femminile è aumentato, ma ciò non toglie che alla gran parte dei violentatori preti provassero attrazione per i ragazzini del loro stesso sesso. Fa testo, al riguardo, una ricerca del sociologo Donald Sullins che, relativamente agli Usa, ha fotografato un dato impressionante: prima degli anni ’50 la proporzione di uomini con tendenze omosessuali nel sacerdozio era circa la stessa della popolazione generale, ma già tre decenni dopo tale quota era salita al 16%, ossia oltre 8 volte quello della popolazione generale.
«L’aumento o la diminuzione degli abusi nel loro insieme», ha inoltre notato Sullins – nel presentare la sua ricerca, significativamente intitolata Is Catholic Clergy Sex Abuse Related to Homosexual Priests? – «fortemente associato all’aumento o diminuzione dei preti con tendenze omosessuali», aggiungendo che circa la metà «di questa associazione è dovuta all’ascesa di sottoculture o cricche di preti omosessuali sessualmente attivi e docenti nei seminari cattolici».
Ora, siccome non risulta che i dati francesi in nessun senso smentiscano queste evidenze – anzi, semmai le confermano (in oltre l’83% dei casi gli aggressori di vittime maschili minorenni si sono dichiarati omosessuali) -, è evidente la necessità di una forte riflessione nella Chiesa. Soprattutto, è necessario combattere gli abusi prevenendoli applicando la linea che, su questo, aveva ben indicato il prima cardinale e poi papa Ratzinger.
Su questo, il rapporto Sauvé – così denominato dal nome del capo della Commissione che l’ha redatto Jean-Marc Sauvé, già vicepresidente del Consiglio di Stato di Francia – prende un abbaglio nella misura in cui traccia un antidoto in nuove «proposte su teologia, ecclesiologia e morale sessuale», per il semplice fatto che, dati alla mano, la cosa che balza più all’occhio è la mancanza di rigore che, dagli anni ’50 in poi, ha iniziato a caratterizzare la vita nei seminari. E in ciò, concludendo, suonano ancora una volta indovinate le parole di Benedetto XVI, quando da una parte ha denunciato la «dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale» e, dall’altro, ha segnalato come, negli anni della rivoluzione dei costumi, «in diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari».
In Francia come negli Usa e in altre parti del mondo, pretendere di affrontare ed eliminare la piaga degli abusi dei sacerdoti prendendosela con un troppo vago clericalismo significa, insomma, mancare il bersaglio. Per il semplice motivo che il primo problema dei preti che commettono gli abusi è che, ben esaminati e seguiti nella loro formazione, non sarebbero mai dovuti diventare preti. Questo è il punto. Una scomoda verità? Probabilmente sì. Ma è anche la sola, per citare ancora il Vangelo, che ci possa render liberi.
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