Non capita certo tutti i giorni che all’Onu possano risuonare voci pro life e pro family; tanto meno che lo possano attaccare la pratica barbara dell’utero in affitto. Per questo stato è sicuramente un evento che ieri, in seno al 68º Summit mondiale sulla condizione femminile (CSW68) – il secondo evento annuale più importante dell’Onu –, si sia potuto tenere un incontro contro l’utero in affitto, molto chiaro fin dal titolo: Too High a Cost: End Surrogacy Now. Eppure così è stato, grazie ad una conferenza promossa dalla Santa Sede, mediante l’Osservatorio permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, e in collaborazione stretta con Adf international. Tra i relatori, unica italiana, c’era la bioeticista Giulia Bovassi, collaboratrice del nostro mensile. Il Timone l’ha contattata per saperne di più di questo importante evento.
Dottoressa Bovassi, qual è stato il senso del vostro intervento alle Nazioni Unite? «Lo scopo di questo evento – organizzato da diverse associazioni ma principalmente e fortemente voluto dalla Santa Sede, mediante ovviamente l’Osservatorio permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite e in collaborazione stretta con Adf international – era molto chiaro».
E cioè? «Si è deciso di portare il tema della maternità surrogata all’interno del 68esimo summit mondiale sulla condizione delle donne cercando di proporre l’argomento, come focus speciale per quel che riguarda la questione della giustizia sociale e vulnerabilità delle donne che accettano di prestarsi a pratiche di surrogazione come gestanti, proprio per questioni di necessità, nella fattispecie ovviamente economiche, e perciò che si trovano in una situazione di particolare vulnerabilità sociale, familiare, economica e culturale – e che quindi spinte da questa pressione, diciamo, sono portate ad accettare pratiche come quella della surrogata. Ma l’evento non è voluto essere solo un focus sulla vulnerabilità sociale, bensì un tentativo scardinare tutte quelle perplessità che portano magari ad essere favorevoli alla maternità surrogata».
In che modo? «Mettendone in luce le perplessità forti attraverso un tavolo di speaker, multidisciplinare e molto completo. L’idea è stata quella di far uscire il dibattito – com’è tipico nelle sedi istituzionali, come ovviamente sono le Nazioni Unite – dalla sola questione delle politiche sociali e dei diritti umani e di quelle economiche, per farlo invece rientrare in quelle anche giuridiche, della testimonianza personale, dando comunque il valore aggiunto del discorso confessionale – posto dalla Santa Sede -, ma soprattutto mettendo in luce, con un taglio molto approfondito, lo sguardo bioetico e antropologico, che molto molto raramente viene posto. Questo deve servire per far emergere la problematicità forte, dal punto di vista antropologico – che avvalora anche quello delle politiche sociali, dei diritti umani e di giustizia sociale – e nell’insieme tutte queste criticità hanno l’obbiettivo di spingere tutte le rappresentanze, presenti all’evento, a cogliere la ragionevolezza profonda e la legittimità totale delle istanze che muovono singoli Stati e le nazioni verso la dichiarazione del reato universale di maternità surrogata. Si è trattato insomma di un’opera di convincimento morale in favore della dichiarazione di reato universale della maternità surrogata».
Qual è invece stato il focus del suo intervento? «Il mio intervento si è aperto con una domanda fondamentale: dov’è la madre? A questa è seguita una riflessione in cui ho portato, anzitutto, il problema della corporeità, ossia delle criticità che interessano le donne coinvolte in questa pratica; da cui corporeità esce svuotata, con la procreazione che diventa mera riproduzione, con un passaggio radicale come mai si era visto prima nella storia della condizione femminile. La corporeità, da bene indisponibile – in quanto legato alla persona – diviene infatti con la maternità surrogata risorsa biologica disponibile e indifferente alla persona. Viene quindi a crearsi una svalutazione della donna, che viene svuotata della sua dignità più propria e viene invece ridotta ad un mezzo di profitto, uno strumento per raggiungere il miglior prodotto possibile così come pattuito e stabilito. Ho inoltre affrontato altri aspetti, concludendo con una riflessione sul potere biotecnologico. La maternità surrogata è una degenerazione di una visione economistica anche degli aspetti più profondi dell’umano, quelli metabiologici, metafisici e quelli ontologici».
E sul figlio coinvolto nella pratica dell’utero in affitto, che cosa ha detto? «Ho esortato ad entrare nell’ordine di idee che il bambino commercializzato è un soggetto che viene già pensato da commercializzare. Dobbiamo quindi chiederci chi sia quel bambino su cui si gioca tutta la dinamica della maternità surrogata. Se non troviamo un accordo sostanziale su questo, se non troviamo convergenza su questo, rimarrà difficile trovare un punto di accordo sul perché un soggetto di diritto non possa essere oggetto di commercio. Ho inoltre richiamato l’attenzione sui nove mesi di gravidanza».
Affermando che cosa? «Che sono nove mesi relazionali, sono nove mesi di relazione biochimica, ormonale, fisica, emotiva, mentale della madre e del figlio, che coesistono e crescono assieme. Questo non è un dato filosofico, non è un dato confessionale, è un dato scientifico. Quindi imporre la recisione di questo legame – per ottemperare ai desideri che si riversano nella persona che diventa convertita in oggetto del desiderio – è una forma di violenza commessa sulla donna e sul bambino. Essere indifferenti a questo dato di realtà è una delle forme più estreme di violenza».
A livello internazionale, il dibattito sulla maternità surrogata è più orientato al ripensamento di questa pratica oppure le spinte economiche rendono ancora non percorribile, appunto, un ripensamento? «A livello internazionale il dibattito è sicuramente molto scisso. Ci sono delle polarizzazioni tra coloro che sono assolutamente contrari e coloro che sono assolutamente favorevoli alla pratica, ma ci sono veramente tante sfumature, perché è un tema controverso e che paradossalmente mette d’accordo anche anime distanti fra loro, come quella femminista o della bioetica pro life e personalista. In questo momento è però molto forte la spinta economica, di mercato dei figli e del grembo materno. C’è anche una strada che appare intermedia: quella della regolamentazione, seguita da quegli Stati che vogliono distinguere tra maternità surrogata commerciale e altruistica. Ma si tratta di una distinzione fittizia, dato che anche nella maternità altruistica subentrano comunque aspetti economici – basti pensare alla questione dei rimborsi – che non la rendono affatto gratuita, mentre restano interati quelli bioetici tipici, e drammatici, della maternità surrogata».
(Fonte foto: Screenshot, Webtv.un.org)
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