Monsignor Erik Varden, monaco trappista e vescovo di Trondheim, Norvegia, ha tenuto una ricca conversazione con Daniel Capò, blogger e analista politico, affrontando temi cruciali per i credenti del nostro tempo, in particolare in merito al rapporto tra la ricchezza della fede e la modernità nella quale sono, siamo immersi, con tutte le sue istanze. Il testo è stato pubblicato anche sulla rivista Ecclesia di febbraio e sul sito del vescovo. Se ci domandassero a bruciapelo come possiamo rispondere all’evidente necessità di rinnovamento della Chiesa (necessità sempre presente nella storia del cristianesimo), forse, non ci verrebbe come prima risposta quella del potere della liturgia e della Parola. Invece è proprio quello il nucleo attivo e indistruttibile dal quale continua ad emanare la forza trasformatrice della nostra fede. Capò richiama un recente intervento del vescovo norvegese sul tema:
«In una voce sul tuo blog «Coram Fratribus», hai sottolineato (…): «Tutti ora hanno teorie sulle varie crisi della Chiesa. Per quanto posso vedere, c’è davvero una sola grande crisi: l’eclissi graduale di una vera comprensione di chi è Gesù Cristo». (…) nel nostro mondo post-secolare, troviamo molto più facile accettare la presenza di un Gesù meramente umano di quella di Gesù come Signore e Logos della storia. Come possiamo recuperare la pienezza della nostra fede quando ci siamo abituati a semplificare e ridurre le nostre convinzioni?».
Nella risposta Mons. Varden è come se diagnosticasse uno stato di denutrizione nel cristianesimo attuale; ed è per questo che può risultare astenico, indebolito al punto da non poter reggere l’urto delle sfide nelle quali anche oggi, come in ogni epoca, è chiamato ad entrare: «Dobbiamo riaccendere il nostro interesse per la teologia, scavando in profondità nella Scrittura e nel mistero della fede emanato nella liturgia. Percepisco un anti-intellettualismo in gran parte del cattolicesimo contemporaneo».
È una denuncia dalla quale non si sente affatto escluso, anzi la affina mostrando il particolare paradosso nel quale ci troviamo coinvolti come cristiani contemporanei: « (…) navighiamo sulla scia di un Concilio la cui parola d’ordine era “Ritorna alle fonti!”, eppure il nostro discorso diventa sempre più ristretto, più autoreferenziale e pragmatico, cedendo al vocabolario estrinseco al pensiero cattolico». Procedere spediti lungo un sentiero che ci allontana dalla meta è un modo efficiente per debilitarsi ancora di più: chi dubita che la Chiesa abbia bisogno di rinnovamento?, si chiede mons. Varden.
Eppure ciò che è più necessario è che rimetta mano alla dimensione intellettuale perché «qualsiasi rinnovamento della Chiesa ha avuto una dimensione intellettuale che nutre l’impresa spirituale e caritatevole.(…). Tu chiedi “Come possiamo recuperare?” Abbiamo strumenti eccellenti. Il Catechismo è una risorsa monumentale la cui struttura e riferimenti attingono all’intera gamma del nostro patrimonio.»
Perché ritirarsi in piccole riserve devozionali, o in una sorta di buen retiro a godere di un precario benessere conservando forze che non si sa più dove profondere? Perché, in ultima analisi, accettare di vedere menomato e ridotto, se non addirittura insterilito, il cristianesimo che per sua natura non può che innervare e vivificare tutta la storia e tutti gli uomini in ogni tempo, compreso questo?
Così prosegue il vescovo trappista: «Puntiamo in alto, non contentiamoci della mediocrità, pronti a “”rispondere a chiunque ci chieda ragione della speranza che è in [noi]”” (1 Pietro 3:15).” Vale la pena difendere quella speranza. Dobbiamo aiutarci a vicenda a cercare ciò che è bello e meglio nella nostra tradizione per presentare Cristo, Alpha e Omega, in modo credibile e attraente al mondo in cui viviamo». L’alternativa non è dunque tra cedere alla modernità fino a stemperarsi in essa o rifiutarla ottusamente. Come è avvenuto per il popolo ebraico della diaspora, ciò che mantiene viva l’identità è ricordarsi della presenza di Dio, attraverso la Parola, i comandamenti, i misteri celebrati. Erik Varden risponde così alla domanda sulla trasmissione della fede e sul rischio che come credenti coinvolti in una sorta di diaspora stanziale “all’occidentale” stiamo vivendo:
«Ogni volta che gli ebrei abbandonavano la vita dei comandi, nel giro di poche generazioni perdevano la loro identità. Senza i rituali, alla fine l’amore muore. Con loro, le braci incandescenti rimangono, e hanno ancora il potere di scoppiare in fiamme.’ C’è un messaggio in questo per noi. Non si tratta di rifiutare la modernità. La modernità è l’aria che respiriamo. Dovremmo essere grati di poter respirare! Ciò che conta è trovare un significato nella modernità. Perché ciò accada, le nostre radici devono essere profonde.»
Ciò che il cristianesimo può e deve al mondo è sempre la stessa cosa: annunciare Cristo, unico Salvatore e senso della storia intera. Questa è e resta la portata della nostra fede, in grado di agire in questa epoca esattamente come ha potuto farlo nei due millenni che ha già percorso. Fa un certo effetto ascoltare queste parole dal giovane vescovo di una chiesa che sembrava in uno stato vegetativo irreversibile: come abbiamo già avuto modo di riferire, invece, dal profondo Nord che ha dato campo libero all’individualismo più sfrenato arrivano notizie di rinascita della fede. Numeri piccoli? I primi, fa sempre bene ricordarcelo, erano pur sempre dodici, addirittura undici per un breve e drammatico frangente. Armati della parola di Cristo, pieni di Spirito Santo, quei pochi hanno cominciato l’opera che la Chiesa prosegue nella storia fino a che non verrà detto “basta”dal Solo che può.
«Cos’è il cristianesimo? Il cristianesimo è la convinzione che la Parola con cui e per la quale tutte le cose sono state fatte è entrata nella storia per correggere i torti fondamentali, quindi per rispettare attraverso una comunione di credenti, la Chiesa, all’interno del processo storico, rimanendo una fonte di direzione, forza, correzione e conforto fino alla fine della storia. In questi termini, nessun periodo è incompatibile con il cristianesimo; ma ogni periodo presenta il cristianesimo una sfida per articolarsi in modo nuovo, efficace e intelligibile, “che il mondo possa credere” (cfr. Giovanni 17.21). Ciò che conta è ascoltare le vere domande che il nostro tempo fa, poi vedere come la nostra fede in Cristo fornisce risposte. C’è una tendenza nella Chiesa a produrre una risposta lunga, astrusa e monologica a domande che nessuno di fatto fa. Tutto ciò che il mondo percepisce è un’effusione di aria calda.». Mentre ciò che serve è il vento dello Spirito che scompiglia e incendia. Non rimarrà quieto, ne siamo certi, nemmeno in questi tempi.
(Fonte foto: screenshot YouTube/Pexels.com)
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