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Il “mobbing” dem dietro le dimissioni del giudice Breyer dalla Corte Suprema
NEWS 29 Gennaio 2022    di Valerio Pece

Il “mobbing” dem dietro le dimissioni del giudice Breyer dalla Corte Suprema

Usato e gettato via? Questo sembra essere stato il destino di Stephen Breyer, l’83enne giudice della Corte Suprema che lascerà il suo incarico dando la possibilità al presidente Joe Biden di nominare, al suo posto, la prima giudice di colore.

Stephen Breyer, negli anni, ha contribuito a emettere sentenze storiche, che hanno ampiamente “soddisfatto” i democratici, prime tra tutte quelle a favore delle politiche abortive e delle istanze LGBTQ. Ma non è bastato: schiere di progressisti, per tutto il 2021, più o meno elegantemente lo hanno esortato a dimettersi, con l’obiettivo dichiarato di salvare il colore del seggio e dare continuità agli ideali (ovviamente salvifici) della giustizia di stampo liberal. Sul pressing prodotto ai danni di Breyer, l’età c’entra poco o nulla (Ruth Bader Ginsburg, giudice ultra-progressista, era rimasta al suo posto fino alla sua morte, sopraggiunta a 87 anni); le sue capacità professionali ancora meno (a differenza del suo Presidente, la cui ultima gaffe è stata quella di insultare pesantemente, a microfoni aperti, un giornalista in conferenza stampa, Breyer è assolutamente lucido e scrupoloso), la sua caldeggiata uscita, semplicemente, permetterà di far eleggere alla Corte Suprema una giudice molto più giovane, in grado, sui temi più cari ai liberal, di dare battaglia per interi lustri. Niente di meno.

La “realpolitik democratica” (va detto che con le elezioni di medio termine di novembre, la maggioranza del Senato potrebbe tornare ai repubblicani, rendendo così impossibile la nomina di un giudice liberal) è stata esternata in varie forme e modalità. Si è passati dal mobbing soft di Richard Blumenthal, senatore dem del Connecticut («Breyer conosce, ne sono certo, la realtà politica del nostro attuale Senato. Ma le elezioni comportano sempre dei rischi, quindi si spera che sia consapevole di quel rischio e si comporti di conseguenza»), alla non meno untuosa captatio benevolentiae del deputato democratico Mondaire Jones («Se il giudice Breyer vuole continuare a impegnarsi nella sua idea di giustizia, di certo vorrà essere sostituito da qualcuno»), fino alle velate minacce di Rachel Carmona, direttrice esecutiva del gruppo femminista Women’s March, la quale, non capacitandosi del ritardo con cui Breyer ha reso pubbliche le sue dimissioni, scrive: «Abbiamo tutti gli occhi puntati sulla Corte Suprema su questioni riguardanti aborto, controllo delle nascite, assicurazione sanitaria, questioni LGBT, immigrazione». A buon intenditor.

Il soggetto che più di tutti ha condotto una campagna costante e rumorosa per spingere Breyer a dimettersi è Demand Justice, organizzazione retta da ex funzionari dell’amministrazione Obama. Nel giugno scorso Demand Justice aveva pubblicato una lettera chiedendo al giudice Stephen Breyer di dimettersi dalla Corte Suprema. L’appello era firmato da studiosi di diritto, attivisti di sinistra, nonché da docenti di alcune tra le migliori università americane. «Il giudice Stephen Breyer dovrebbe immediatamente annunciare la sua intenzione di ritirarsi dalla panchina. Con il futuro controllo del Senato, diviso e incerto, il presidente Biden deve avere l’opportunità di nominare un successore senza indugio e adempiere al suo impegno di mettere la prima donna nera alla Corte Suprema», così si chiudeva la lettera, condivisa e sottoscritta anche da altre sigle: Black Lives Matter, Common Defense, Take Back The Court Action Fund, We Testify e la già citata Women’s March. Non paghi, Demand Justice (sul cui profilo si legge avere l’obiettivo di «aggiungere quattro seggi alla Corte Suprema»), ha inviato alcuni camion vela intorno al palazzo della Corte Suprema, a Washington. Sui manifesti – adorni di appariscenti cartelloni pubblicitari – il messaggio, neanche a dirlo, era il solito: «Breyer, vai in pensione. È tempo per una donna di colore alla Corte Suprema».

A questo punto è interessante notare – non foss’altro perché lo hanno fatto in pochissimi –come il giudice Breyer per lungo tempo abbia respinto ogni richiesta di dimissioni, suggerendo che se avesse programmato il suo ritiro per garantire una sostituzione democratica, ciò avrebbe politicizzato inutilmente la Corte. C’è di più. In un suo libro uscito nel settembre del 2021 (The Authority of the Court and the Peril of Politics, Harvard University Press) Breyer aveva responsabilmente scritto: «Se le persone arrivano a vedere i giudici come semplici “politici in toga”, la loro fiducia nei tribunali e nello stesso stato di diritto può solo diminuire». Il libro di Breyer, che già dal titolo punta il dito sui pericoli della politica per la giustizia, «può essere letto come un atto d’accusa dei pensionamenti a tempo, un atto inevitabilmente politico», così l’analista Ian Millhiser su Vox.

In questo quadro di giustizia politicizzata si aggiunge un paradosso dal sapore razzista, quello che accompagna la ferma volontà di Biden di volere alla Corte Suprema solo «una donna di colore». Jonathan Turley, sul Wall Street Journal, si chiede: «Con la corte destinata a pronunciarsi intorno alle preferenze razziali nelle ammissioni all’università, viene da chiedersi se sia appropriato, per un politico, utilizzare un criterio che la corte stessa ha ritenuto incostituzionale per le istituzioni educative e illegale per le imprese». Le principali candidate alla Corte Suprema (che per ora sono Leondra Krueger, Michelle Childs e Ketanji Brown) avrebbero potuto essere serenamente prese in considerazione per i loro meriti, senza l’utilizzo di criteri ingombranti (donna e di colore), ed «evitando – scrive il WSJ – di essere etichettate solo in virtù del riempimento di una quota».


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