«Facciamo tutto il possibile per riprendere una coscienza per vincere questo inverno demografico che va contro la nostra patria e il nostro futuro». Così papa Francesco all’Angelus nel giorno della festa della Sacra famiglia, e ha aggiunto che si tratta di una «tragedia». Le parole del Papa si aggiungono così al suo giudizio netto sull’aborto, quando in più occasioni ha parlato di «omicidio con un sicario». Dalla Germania, che invecchia a vista d’occhio, un po’ meno dell’Italia, ma è sempre dentro l’inverno demografico che investe tutto il vecchio continente, arriva una buona notizia ed una tragica.
In Germania, lo ricordiamo, l’aborto è teoricamente illegale. È un reato contro la vita punito con pene fino a cinque anni dagli articoli 218 e 219 del codice penale – che vieta anche di pubblicizzare la pratica abortiva. Fin dal 1976 l’aborto però è stato depenalizzato. Allo stato attuale dunque non è perseguibile. A patto però di rispettare alcune condizioni: che avvenga entro le prime 12 settimane, solo dopo un consulto obbligato e il successivo rilascio di un certificato medico.
Nel 2020 sono stati praticati circa 100mila aborti in Germania. Ma sempre più medici obiettano. Tanto è vero che se nel 2003 l’Ufficio federale di statistica aveva censito 2.050 strutture – tra ambulatori e cliniche – che praticavano aborti, alla fine del 2020 il loro numero è sceso a 1109. Un calo del 46 percento, quasi della metà.
I motivi del dimezzamento sono diversi: in primo luogo c’è una carenza strutturale di medici, in particolare di medici abortisti. La ragione è in buona parte generazionale: la generazione di medici formatasi quando ancora l’aborto non era consentito, in gran parte favorevoli alla depenalizzazione della pratica abortiva, sta gradualmente andando in pensione.
I medici più giovani sono meno favorevoli all’aborto, per motivi religiosi o di coscienza. E non va sottovalutato nemmeno il fatto che l’aborto sia ancora considerato illegale, ancorché non punibile, se perfino una insospettabile come Cornelia Möhring, storica deputata del partito di ultrasinistra Die Linke, ha dovuto riconoscere che «molte dottoresse non vogliono fare l’intervento [abortivo] a causa della stigmatizzazione giuridica».
È quella che Sylviane Agacinski ha chiamato la «funzione civilizzatrice del diritto». Come ha notato il giurista Martin Kriele, il fatto che l’aborto sia illegale per principio – anche se depenalizzato e consentito nella pratica – lascia più viva nei cittadini la coscienza di ciò che è giusto e sbagliato rispetto a una legislazione che legalizza un delitto così abominevole. Difatti nella DDR, la vecchia Germania dell’Est dove l’aborto era legale anche in linea di principio, si abortiva tre volte di più rispetto alla Germania Ovest. La norma, anche se menomata e svuotata di sostanza, esercita ancora una qualche influenza sulla coscienza, soprattutto in paese come la Germania, plasmato dalla morale del dovere di ispirazione kantiana.
Comunque sia, attualmente la percentuale dei ginecologi tedeschi che fa aborti è compresa tra il 10 e il 20% del totale. Inoltre nelle zone rurali e in alcuni Länder – in particolare quelli del sud, dove la popolazione è prevalentemente cattolica – c’è ancora una mentalità diffidente verso l’aborto. A detta degli stessi abortisti anche l’interventismo dei movimenti pro-life, che protestano davanti alle cliniche degli aborti, ha il suo peso.
E qui arriva la cattiva notizia: per aggirare il problema dei medici obiettori da qualche settimana è arrivato l’aborto on line e a domicilio. L’iniziativa è partita da un network di organizzazioni: l’organizzazione non governativa Doctors for Choice, il Centro di pianificazione familiare Balance e il Consultorio Pro Familia (entrambi di Berlino). Questa rete ha lanciato un progetto pilota di telemedicina on line per consentire l’aborto farmacologico a domicilio.
La pandemia, affermano i sostenitori dell’aborto online, ha reso ancora più difficili gli spostamenti per recarsi in cliniche abortiste spesso molto lontane dalla propria città di residenza. Da qui l’idea di sfruttare il web per permettere alle donne di «esercitare il loro diritto all’autodeterminazione riproduttiva» (così si legge sul sito di informazione Deutsche Welle). L’idea non è nuova. Già da quindici anni organizzazioni come Women on Web spediscono pillole abortive in vari paesi del mondo, anche con legislazioni molto restrittive in tema d’aborto.
La procedura è snella: dopo un primo contatto telefonico, basta una semplice videochiamata per ottenere una consulenza web da un ginecologo il quale, dopo aver visionato documenti sanitari, ecografie e anamnesi varie, provvede a informare la donna sulle modalità di assunzione della pillola abortiva, inclusi i possibili effetti collaterali.
Successivamente parte il pacco coi farmaci abortivi, pronto per essere spedito a casa. La paziente, supervisionata dal ginecologo via video chat, prende così la prima pillola e due giorni dopo la seconda, per la quale è sufficiente la compagnia del partner o di una persona amica. E due settimane e mezzo dopo c’è il test per confermare l’avvenuto aborto. In caso di complicazioni c’è l’ospedale più vicino. «Fino ad ora», spiega a Die Zeit Jana Maeffert, una delle ginecologhe del progetto, «abbiamo effettuato circa 50 aborti».
Con l’aborto via chat, rapido e quasi indolore, la banalità del male diventa la liquidità del male. Avanza così a colpi di click la «morte in smart working», secondo l’indovinata espressione del giornalista Alessandro Rico, con la quale la soppressione della vita nascente è «ridotta a una successione di passaggi burocratici, persino spersonalizzata, diluita dal medium elettronico».
Sarà questa la tanto decantata «nuova normalità»? A noi pare più un incubo dal quale risvegliarsi il prima possibile.
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