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Per Julien Langella un popolo senza radici è ammalato
NEWS 15 Ottobre 2021    di Luisella Scrosati

Per Julien Langella un popolo senza radici è ammalato

Oggi c’è bisogno anche di ascoltare voci capaci di épater le bourgeois. Sicuramente a queste voci scapigliate appartiene quella di Julien Langella, 34 anni, francese, il cui ultimo libro si intitola addirittura Refaire un peuple. Pour un populisme radical (Rifare un popolo, per un populismo radicale). Portavoce di Academia Christiana e editorialista del quotidiano francese Present, lo abbiamo contattato colpiti appunto dalla sua capacità di “sbalordire il borghese”. Il suo è un incedere impetuoso, a tratti un po’ romantico, qualcuno direbbe estremista, ma si percepisce la passione e la voglia di lasciarsi alle spalle quarant’anni di ideologie mortali, corruzione e mercificazione del mondo. Perciò leggiamo le sue risposte che esplodono come potenti petardi una dopo l’altra, e a ogni botto, per quanto assordante, si intravede una strada per non restare prigionieri della Scilla dello statalismo e del Cariddi del liberalismo.

Lei ha denunciato lo sradicamento di intere popolazioni. Non è un po’ troppo tardi per suonare l’allarme?

«Quando Giovanna d’Arco spunta nella storia nel XV secolo, la Francia era sprofondata nella rassegnazione. Tutte le istituzioni della società francese predicavano l’inutilità di una resistenza, il futuro Carlo VII era chiamato con disprezzo “le petit roi de Bourges”; persino il clero era compromesso, come Cauchon, vescovo di Rouen e giudice della Pulzella. Eppure, una contadina di 16 anni arriva a ricordare al Delfino i suoi doveri e a far rinascere la speranza nel cuore dei Francesi. “Gli uomini in armi combatteranno e Dio darà la vittoria”: anziché abbandonarsi a calcoli meticolosi, agiamo con fervore e senso del dovere, per poter guardare negli occhi i nostri figli, dicendo loro: “Ho fatto la mia parte”».

Da dove ripartire?

«Non dobbiamo fare altro che attingere dai tesori delle nostre tradizioni, delle nostre eredità spirituali ed identitarie: i riti, i gesti, le parole, fino all’abbigliamento e alle espressioni artistiche che ci permetteranno di ricostruire la società. Non tutti, negli ambienti patriottici e cattolici, sono fatti per la battaglia campale. Ma ciascuno deve fare la sua parte: il combattimento è dappertutto, qui e ora, in testa al gruppo come nelle retrovie, dove la fraternità comunitaria svolge un ruolo importante».

Tra i numerosi idoli che ci rendono schiavi, lei ha stigmatizzato quello della crescita, il Pil come “sinonimo di salute nazionale e di felicità”.

«Si tratta di un indice statistico ingannevole, perché non misura la qualità, ma solo la quantità dei servizi e dei beni prodotti in un anno, a prescindere che si tratti di sottaceti, film pornografici, libri o vernice per il prato. È l’insegna della società consumistica obesa, dell’ossessione del sempre di più, a discapito di una vita migliore. La ricerca ossessiva del massimo Pil mostra come il capitalismo liberale sia un bolscevismo di mercato, un’economia ciclopica come il comunismo; qual è la differenza tra il trader compulsivo del film Il lupo di Wall Street e l’operaio Stakhanov della propaganda sovietica? La crescita è diventata tossica: più stupidi, più grassi, più americanizzati e più fragili, gli europei in questo senso sono in overdose di crescita. Occorre un nuovo ordine economico, uno sviluppo secondo il genio che ci è proprio, al servizio del Bene comune».

La contrapposizione tra sinistra e destra è un artificio politico per mascherare il vero contrasto tra il gigantismo e localismo?

«Credo all’opposizione filosofica tra la destra e la sinistra, che però non trova posto nello scacchiere politico attuale. Da una parte c’è la sfera della famiglia, della tradizione, dell’identità, della giustizia sociale correttamente intesa e delle libertà locali. Dall’altro quella del “Progresso” divinizzato, della tabula rasa e dell’egualitarismo. La vera destra è localista, difende la piccola proprietà, la creatività economica, l’autonomia delle comunità, la solidarietà organica e gli imprenditori indipendenti contro lo Stato assistenzialista, ma anche contro i Moloch del Cac 40 [indice della Borsa francese, n.d.t.], questi monopoli derivanti dalla libertà assoluta che regna nel mercato “aperto” e che immancabilmente scoraggiano lo spirito d’iniziativa. Statalismo e liberalismo sono le due facce della stessa medaglia. I saccheggi antropologici e sociali del capitalismo alimentano la retorica socialista, come aveva messo bene in evidenza Leone XIII nella Rerum Novarum. Lo Stato-provvidenza è il figlio mostruoso, ma legittimo di Adam Smith».

Cosa farebbe quindi per non crollare e per non smarrirsi?

«“L’amore del denaro è la radice di tutti i mali”, scriveva san Paolo. L’amore di sé, separato da Dio, orgoglio supremo, ha generato una società di malati spirituali, il cui narcisismo ha preso il posto della religione. Alcuni delocalizzano e speculano senza barriere, altri promuovono l’aborto fino alla nascita, altri ancora abbattono statue in nome di una “storia più inclusiva” e altri infine sognano di imporre il gender a tutta la società… Tutte queste nevrosi politiche totalitarie, che ci stanno soffocando, sono i frutti marci del liberalismo, questo antropocentrismo assoluto che sta realizzando il sogno internazionalista del comunismo».

Da dove cominciare?

«Quando si è avvelenati, scriveva Chesterton, bisogna iniziare a smettere di prendere il veleno. Bisogna dunque purificarsi dal veleno liberale, condividendo le risorse e i talenti per radicarsi localmente e costruire i bastioni della riconquista, ciascuno secondo la propria possibilità e vocazione».


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