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«La “guerra” alla vita ha una sua meccanica di distruzione». Intervista a Marina Casini
NEWS 7 Febbraio 2022    di Lorenzo Bertocchi

«La “guerra” alla vita ha una sua meccanica di distruzione». Intervista a Marina Casini

Ieri si è celebrata la 44esima Giornata per la vita, un appuntamento che mobilita migliaia di volontari in tutta Italia. Voluta dai vescovi dopo l’approvazione della legge sull’aborto (22 maggio 1978), la Giornata ha significato fin da subito una sorta di non resa davanti a quella legge decisamente contraria alla morale. Da allora la difesa della vita dal concepimento fino alla sua fine naturale è diventata sempre più difficile, ma si continua a lottare per «custodire ogni vita», come recitava il tema della Giornata per la vita 2022. Ne abbiamo parlato con Marina Casini Bandini (foto nell’articolo), giurista e bioeticista presso l’Università Cattolica, presidente del Movimento per la Vita.

Presidente, ieri dopo 44 anni ancora si è celebrata la Giornata per la Vita, per custodire ogni vita dal concepimento alla sua fine naturale. Non vi sentite un po’ come il giapponese sull’isola che non si arrende al fatto che la guerra è finita?

«La “guerra” è in corso, non è finita. Uso la parola “guerra”, che è un po’ forte, per collegarmi alla domanda, ma in realtà di questo si tratta. Nell’enciclica “Evangelium Vitae” San Giovanni Paolo II non ha esitato a parlare di una di una guerra dei “potenti contro i deboli” e la Santa di Calcutta ha detto «l’aborto è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo». Se esaminiamo il “principio” vediamo che esso implica la liceità dell’uccisione di un innocente per raggiungere un fine sociale; non tiene conto di coloro che non si vedono e che non hanno potere, che sono ingiustamente considerati senza dignità o con una dignità inferiore; l’altro si rispetta e si accoglie solo se la loro esistenza coincide con il proprio interesse; ci sono situazioni in cui l’utilitarismo e il pragmatismo prevalgono sui valori e sulla ragione. Tutte queste caratteristiche, che sono alla base di tutte le guerre, sono presenti nella mentalità abortista. Quindi non è sbagliato accostare l’aborto alla guerra».

Anche il Papa, intervenendo ieri sera nella trasmissione di Rai3 Che tempo che fa, ha parlato di «guerra»…

«Il Papa parlando della guerra ha detto che “la guerra è il controsenso della creazione”, che “la guerra è distruggere”, “nella guerra c’è una meccanica di distruzione”. Come non collegare tutto questo all’aborto, dove le armi di distruzione di massa si chiamano ferri chirurgici, RU486, Norlevo o Levonelle (pillola de giorno dopo), Ellaone (pillola dei cinque giorni dopo)? È vero che con le pillole postcoitali – presentate come contraccettivi di emergenza – non è automatico che venga distrutto un figlio appena concepito perché non si sa se c’è stato un concepimento, ma la cultura che promuove queste “armi” è una cultura nemica della vita umana nascente. Sempre nella trasmissione citata il Papa ha detto “quando si respingono i poveri, si respinge la pace”. Chi è più povero del bambino non nato? Madre Teresa diceva che i bambini non nati sono i più poveri dei poveri. Dunque è chiaro che l’aborto è contro la pace, distrugge la pace. Ricordo che il tema della Giornata per la Vita del 1987 è stato “Quale pace se non salviamo ogni vita?”. E la guerra è esattamente ciò che per antonomasia non custodisce la pace, per rirendere il tema della Giornata per la vita di quest’anno.

Quindi conferma che la “guerra” per la vita non è finita?

«Sì, la “guerra” non è finita, ma è in corso. E quando c’è la guerra bisogna fare appunto, la pace, uscendo dalle logiche che conducono a sopprimere esseri umani innocenti, mobilitando le forze della riconciliazione: riconciliazione del tema della pace con il tema della vita («Nessun movimento per la pace è degno di questo nome se non condanna e non si oppone con la stessa forza alla battaglia contro la vita nascente», disse San Giovanni Paolo II); riconciliazione della società con la maternità durante la gravidanza e quindi con le realtà come i Centri di Aiuto alla Vita; riconciliazione del femminismo con la vita nascente (sarebbe un servizio enorme all’umanità!); riconciliazione della donna che ha vissuto l’esperienza dell’aborto con il figlio cui è stato impedito di nascere …Un lavoro grande che richiede tempi lunghi e una tenacia operosa, ma fondamentale per costruire la civiltà della verità e dell’amore. Nella sua domanda iniziale si fa riferimento alla “morte naturale” e il pensiero va al tema attualissimo dell’eutanasia e del suicidio assistito. Anche su questo fronte, diverso è più complesso, è necessario portare la pace perché anche qui la spinta sociale al rifiuto della vita colpita dalla malattia e dalla disabilità è molto forte e c’è bisogno di riconciliazione in termini di migliore competenza e formazione umana del personae sanitario, assistenza articolata sulle varie necessità, cure palliative, sostegno alle famiglie e ai caregiver, strutture e ambienti accoglienti e adeguati, tenerezza (“si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza”)…».

Per il Presidente francese Emmanuel Macron l’accesso all’aborto dovrebbe entrare nella Carta dei diritti fondamentali europei, cosa risponde?

«Che è un abominio. Siamo di fronte alla più grave minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell’uomo, perché si pretende di uccidere – perché di questo si tratta, anche se la parola è dura – il più fragile degli esseri umani che in quanto tale dovrebbe essere considerato titolare del primo e più fondamentale dei diritti: quello a nascere. Su questa strada non si può parlare di “carte dei diritti umani” ma di “diritti umani di carta”. A livello europeo, la Federazione “One of us” ha reagito con forza rispetto a questa proposta. Una risposta alla domanda si trova nel “Manifesto sul diritto alla vita per celebrare il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, sottoscritto da 56 associazioni (poi aumentate) e pubblicato su “Avvenire” del 9 dicembre 2018. Vorrei però fare una precisazione importante, pensando alla realtà dei fatti».

Prego.

«La gravidanza è una situazione specialissima, unica e irripetibile, una “dualità nell’unità” che non si ripresenta in nessuna altra fase della vita; dunque non possiamo trascurare la madre che è la principale difesa del bambino che vive e cresce dentro di lei, ma che è anche lei vittima dell’aborto insieme al figlio. Infatti, nella maggioranza dei casi la donna subisce pressioni verso l’aborto: dai familiari, dal padre del bambino, dagli amici, dai colleghi, dal datore d lavoro, dalla società, dai medici… ed è così lasciata sola a se stessa. Ecco perché quando si parla di aborto è fondamentale mantenere sempre un atteggiamento non giudicante, di benevolenza anche verso le madri che hanno abortito, evitando espressioni e immagini che possono gettare sale sulle ferite. Bisognerebbe meditare sul paragrafo 99 dell’Evangelium Vitae in cui San Giovanni Paolo II rivolge “Un pensiero speciale” alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto».

A breve la Corte costituzionale italiana si esprimerà sui quesiti referendari in materia di eutanasia legale, o depenalizzazione dell’omicidio del consenziente. Chi vuole l’eutanasia dice che è per alleviare sofferenze, lei cosa pensa?

«Che le sofferenze vanno eliminate (la sofferenza ha tanti volti e fa paura a tutti), ma del sofferente bisogna avere cura. Ricordo che, se non sbaglio in occasione della Giornata del malato del 2020, papa Francesco disse: «Attorno al malato occorre creare una vera e propria piattaforma umana di relazioni che, mentre favoriscono la cura medica, aprano alla speranza, specialmente in quelle situazioni-limite in cui il male fisico si accompagna allo sconforto emotivo e all’angoscia spirituale. L’approccio relazionale − e non meramente clinico − con il malato, considerato nella unicità e integralità della sua persona, impone il dovere di non abbandonare mai nessuno in presenza di mali inguaribili. La vita umana, a motivo della sua destinazione eterna, conserva tutto il suo valore e tutta la sua dignità in qualsiasi condizione, anche di precarietà e fragilità, e come tale è sempre degna della massima considerazione». Abbiamo bisogno che queste parole sostino nei nostri cuori e si incarnino in opere reali e concrete, perché quando la malattia, specialmente quella priva di spazi di guarigione, le difficoltà e i problemi sono tanti e la burocrazia sanitaria sfianca. Ciò di cui c’è bisogno non è essere soppressi, ma essere rassicurati sul massimo impegno scientifico, tecnico, organizzativo sull’accesso alle cure palliative e terapia del dolore (in questa prospettiva sarebbe importante riconoscere maggiore rilevanza accademica all’insegnamento di medicina e cure palliative, oggi presente soltanto all’interno delle specializzazioni previste dal DM del 2013, con la creazione di un autonomo settore scientifico-disciplinare di medicina palliativa); su un alto livello di assistenza sanitaria anche a domicilio; sull’ottenimento di cure adeguate e fruibili; su un’ampia diffusione degli hospice; sulla “leggerezza” della pratiche sanitarie e su una migliore organizzazione dei servizi; sugli aiuti per le famiglie e i caregiver; sul miglioramento delle strutture ospedaliere (compresi i pronto soccorso) e di quelle assistenziali sia dal punto di vista ambientale che dal punto di vista della formazione umana e professionale degli operatori. Per non parlare poi dell’importanza del garbo, dell’amorevolezza, della cura, della prossimità. Se non diamo risposte concrete alla sofferenza delle persone, è facile che suicidio assistito/eutanasia siano visti come soluzione disperata».

Due fatti di cronaca in questi giorni, la morte del piccolo Ryan in Marocco, con un popolo intero che ha lottato per salvarlo, e quella di Monica Vitti, da tempo malata, ma accudita dal marito, insegnano qualcosa rispetto alla imperante “cultura dello scarto”, come ama dire papa Francesco?

«Sì insegnano molto. Ci hanno mostrato un’umanità che sa farsi prossima; che sa soccorrere e condividere; che non si ritrae davanti alle difficoltà; che vince l’indifferenza, la rassegnazione, l’abbandono; che mette in campo quanto occorre per custodire la vita. La presenza affettuosa del marito accanto alla moglie, il suo accudimento costante – da quello che si legge – è una testimonianza che conforta e incoraggia. Questo è ciò che annienta la “cultura dello scarto”. Vorrei soffermarmi in particolare sulla vicenda del piccolo Ryan che ricorda quella di Alfredino, il bambino che in Italia nel 1981, a Vermicino nei pressi di Frascati (Roma), cadde in un pozzo artesiano e rimase bloccato a 60 metri dalla superfice in una strettoia del pozzo. I media dettero un grande risalto all’evento e giunsero in molti – vigili del fuoco, speleologi, volontari, e persino il Presidente della Repubblica, allora Sandro Pertini – per tentare tutto il possibile pur di salvare il piccolo Alfredo Rampi. L’episodio avvenne pochi giorni dopo il referendum sull’aborto manifestando una forte contraddizione: il popolo italiano si commosse per Alfredino e molti cercarono di aiutare i genitori per riconsegnare loro il figlio, mentre pochi giorni prima la maggioranza dei cittadini italiani aveva distolto lo sguardo dai bambini non ancora nati. Perché? Fondamentalmente perché la salvezza dei bambini non ancora nati ha bisogno prima di tutto di uno sguardo che li riconosca come bambini. È questo il presupposto di una rete di solidarietà capace non solo di salvare vite umane, ma anche di asciugare le lacrime di molti genitori».


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