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Lo scandalo (prevedibile) del reddito di cittadinanza
NEWS 5 Novembre 2021    di Giulia Tanel

Lo scandalo (prevedibile) del reddito di cittadinanza

“I cinquemila furbetti del reddito di cittadinanza”, “Reddito di cittadinanza, in tre anni 48 milioni nelle tasche sbagliate”, “Aveva la Ferrari ma intascava il reddito di cittadinanza”… sono solo alcuni dei titoli dei media italiani di questi giorni che riportano lo scandalo di coloro che hanno indebitamente fatto richiesta di questo aiuto economico da parte dello Stato pur senza averne i requisiti.

Uno scandalo, peraltro, rispetto al quale probabilmente il sommerso è ancora molto, ma che nella giornata di ieri ha già portato Mario Draghi ad annunciare nuove strette per il prossimo 2022, sia rispetto agli importi erogati, sia rispetto ai controlli.

Abbiamo affrontato il tema con l’Avvocato Renato Veneruso.

Avvocato, per com’è concepito il reddito di cittadinanza, quanto è emerso in questi giorni era in qualche misura prevedibile?

«Direi assolutamente di sì, per due ordini di motivi: il primo di natura culturale e il secondo di natura istituzionale, formale, normativa. Di carattere culturale, perché noi siamo purtroppo un Paese che vive ancora di una psicologia sociale di tipo, mi permetterei di dire, sovietico, cioè in cui il rapporto tra il cittadino e le istituzioni viene vissuto in termini di sudditanza. Questo comporta inevitabilmente che quando il cittadino può utilizzare una “scappatoia” per ottenere qualcosa dallo Stato, che viene concepito come un “altro da sé” che viene a dare o molto più spesso a togliere, si determina un atteggiamento di dissimulazione. Invece per quanto riguarda il secondo aspetto, vi è innanzitutto il fatto che sotto il profilo normativo il reddito di cittadinanza, che nasce in un’esperienza e in un contesto giuridico anglosassone, si basa sull’autocertificazione, cioè sulla capacità di attestare – da parte del richiedente – delle condizioni soggettive che devono essere sussistenti per avere il reddito di cittadinanza, ma che soprattutto devono essere vere. Questa attitudine a fare delle autodichiarazioni secondo verità è assolutamente assente nella nostra cultura o, oserei dire, psicologia sociale, ed è la ragione per cui era facile immaginare che si potesse portare a questi abusi. Inoltre, vi è un altro aspetto normativo importante, ossia che i controlli che la legge prevede sono a valle e a campione, e quindi il controllo interviene soltanto dopo che il beneficio è stato somministrato, e neanche per tutti. Questo determina l’ipocrisia di gridare allo scandalo quando vengono scoperti degli abusi: ma se a monte non c’è la predisposizione culturale e a valle non c’è il controllo istituzionale, di che cosa ci vogliamo scandalizzare?».

Il tema del reddito di cittadinanza richiama la Dottrina sociale della Chiesa, nella quale è ben definita la differenza tra l’assistenzialismo, che in definitiva svilisce la dignità delle persone, e invece una vera sussidiarietà che, come diceva Benedetto XVI, è «espressione dell’inalienabile libertà umana»…

«Mi sembra assolutamente corretto richiamare la Dottrina sociale della Chiesa, che in argomento può intendersi ispirata a due principi fondamentali: uno è quello della sussidiarietà, secondo il quale bisogna ricorrere alle istanze superiori, allo Stato nello specifico, soltanto laddove i corpi sociali non riescono da sé a garantire l’adeguata forma di assistenza ai propri componenti; l’altro è quello della solidarietà, che tuttavia deve essere articolato con il principio di sussidiarietà, perché se viene applicato in modo autonomo, indiscriminato e distaccato da questo si determinano dei fenomeni che sono estranei alla previsione della Dottrina sociale della Chiesa, che lei stessa qualificava come di “assistenzialismo” e che devono evidentemente intendersi come lesivi della dignità della persona umana, in quanto le impediscono di poter essere inserita in un contesto istituzionale di opportunità di lavoro che le possa garantire i mezzi di sostentamento che le sono necessari, senza con questo essere né schiava di un padrone, né dello Stato».

A suo avviso, in ottica propositiva, quale potrebbe essere una misura corretta e attuabile, tenendo conto del fatto che effettivamente ci sono molte persone, sempre di più, che vivono in uno stato di povertà?

«Non c’è ombra di dubbio che non si può negare la necessità di un intervento di solidarietà nei confronti di chi versa in uno stato di necessità, ossia sempre più persone. Quest’aiuto può anche essere immaginato – ma evidentemente in misura non esclusiva, ed è questo l’aspetto fondamentale – come un intervento della tipologia propria del reddito di cittadinanza, ma questo deve avvenire sulla scorta di valutazioni che non possono essere fatte in modo indiscriminato e che quindi richiedono delle modalità di controllo che deve essere anche di tipo preventivo, oltre che di verifica rispetto a quanti ricevono i soldi. Ma direi che l’aspetto più importante è quello di recuperare un rapporto che non venga svilito solo in termini di denaro. Mi spiego: il sostegno può essere dato anche secondo altre forme, quelle che in diritto vengono definite “obbligazioni in forma specifica”, come possono essere per esempio i sussidi alimentari o finalizzati all’assistenza scolastica. Questo perché legare sempre il presupposto del beneficio a un dato meramente materiale significa poi automaticamente perdere di vista quella che è l’esigenza effettiva».


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