Lunedì 08 Dicembre 2025

In Africa è ancora tragedia

 

Quasi cinquant’anni fa molti Stati africani ottenevano l’indipendenza. Ma l’Africa non usciva dalla crisi. Che va cercata soprattutto all’interno del continente nero.


Nel 1962 l'agronomo francese René Dumont pubblicava un libro destinato a far discutere, L'Afrique noire est mal partie ("L'Africa nera è partita male"): nel decennio "delle indipendenze" dal dominio coloniale europeo, accolte con entusiasmo come l'alba di una nuova era per l'Africa, Dumont guardava invece con preoccupazione al dilagare della corruzione e alle dittature deliranti che andavano sostituendo le vecchie amministrazioni.
24 anni dopo, nel 1986, Jacques Giri, consulente francese della cooperazione internazionale allo sviluppo, scriveva L'Afrique en panne ("L'Africa in crisi"), un saggio in cui illustrava venti anni di fallimenti sotto le apparenze di uno sviluppo economico in realtà mancato. Agli africani convinti che la rovina del loro continente dipenda unicamente da fattori esterni - il capitalismo, il libero mercato e, prima ancora, la tratta " atlantica degli schiavi e la colonizzazione europea - il libro che ne individuava le cause tutte interne non piacque.
Apprezzarono ancora meno nel 1991 Et si l'Afrique refusait le developpement?, ("E se l'Africa rifiutasse lo sviluppo"), un'altra pietra miliare della letteratura cosiddetta "afropessimista", in cui una giovane studiosa camerunese, Axelle Kabou, spiegava i fattori culturali che impediscono agli africani di sconfiggere la povertà, attirandosi con ciò l'accusa di tradire le proprie origini e di essersi venduta all'imperialismo occidentale.
Ma, a 40 anni dalle indipendenze, lo scenario continentale conferma le previsioni più negative.
Quasi tutti gli Stati africani si collocano al fondo dell'Indice dello Sviluppo Umano pubblicato ogni anno dallo United Nations Development Program. Un dato basta a dimostrare la gravità della situazione. Mentre a livello mondiale la speranza di vita alla nascita, l'indicatore che misura l'età alla quale i bambini nati in un certo anno possono sperare di arrivare, è in aumento da decenni ed è ormai vicina a 70 anni (in Italia supera gli 80), in Africa, dopo aver sfiorato i 52 anni, ha ripreso a diminuire dall'inizio degli anni 90 fino a toccare adesso i 47 anni. Conflitti, carestie e una pessima situazione sanitaria erano e rimangono i principali fattori di crisi.

 

I fattori della crisi
Tra il 1998 e il 2003 l'ultima guerra scoppiata nella Repubblica Democratica del Congo ha ucciso quattro milioni di persone; si stima che quella in corso nel Darfur, la regione occidentale del Sudan in armi dal 2003, abbia già provocato più di duecentomila vittime; in Somalia, dove i maggiori clan lottano per il potere dal 1991, si contano almeno seimila morti dall'inizio del 2008. Le cifre si riferiscono tutte alla popolazione civile. Ma a peggiorare il quadro è il fatto che non c'è praticamente Paese africano in cui non si segnali un costante stillicidio di morti causati da conflitti locali, a "bassa intensità", che vedono quasi sempre per protagonisti comunità etniche in lotta per contendersi risorse e mezzi di sopravvivenza - una sorgente, un pascolo, dei capi di bestiame e, nelle città, il monopolio di un'attività redditizia o anche solo di un crocevia da occupare con accattoni e lavavetri - oppure movimenti antigovernativi in grado di sottrarre al controllo statale porzioni di territorio. Aids, tubercolosi e malaria decimano,le popolazioni africane malgrado l'impegno assiduo della comunità internazionale. Ogni 30 secondi un bambino africano muore di malaria e sono africani circa due terzi degli ammalati di AIDS del mondo. I danni sociali ed economici sono enormi. A creare una situazione davvero insostenibile è peraltro la diffusione di affezioni e malattie, molte delle quali invalidanti, che sarebbero facili da prevenire e curare, alle quali si devono aggiungere i frequentissimi incidenti dovuti a condizioni di vita e di lavoro pericolose che riempiono di insidie l'esistenza quotidiana. Da quarantamila a centomila persone in Africa ogni anno sono vittime del morso di serpenti; incalcolabile è il numero di quelle uccise o menomate da rifiuti tossici, incidenti stradali, domestici e sul lavoro e dalla mancanza di adeguata assistenza medica: la mortalità materna in diversi Stati - ad esempio, in Sierra Leone e Zimbabwe - supera di molto i mille decessi ogni centomila bambini nati vivi, mentre nei Paesi industrializzati è prossima allo zero.
Un altro fattore di crisi è dato dalle carestie dovute soprattutto a condizioni metereologiche particolarmente avverse, alle quali si aggiunge spesso l'insicurezza determinata dall'endemica conflittualità, più intensa proprio in periodi di penuria, che impedisce a intere comunità di lavorare e produrre. Tra le calamità naturali ancora si annoverano persino le cavallette. Tuttavia, anche in questo caso, al di là delle emergenze umanitarie eccezionali, il dato significativo è che denutrizione e carenze alimentari interessano gran parte della popolazione in condizioni del tutto normali. Nelle campagne africane la scarsità di generi alimentari di prima necessità è generale e comune. Mancando sistemi di raccolta delle acque piovane, ogni minima irregolarità climatica - piogge troppo abbondanti o scarse, anticipate, intermittenti o in ritardo - compromette la sopravvivenza del bestiame e la resa del lavoro agricolo, già limitata dall'uso di attrezzi in gran parte rudimentali. In Africa sub-sahariana sono irrigati solo il 4% dei terreni agricoli e ogni anno dal 40 al 60% dei raccolti va perduto per cattiva conservazione.

 

Il fallimento economico
Sono tante le cause che concorrono a creare una situazione così disperata, ma all'origine vi è il fatto che finora l'Africa ha perso due sfide fondamentali poste dall'avvento "delle indipendenze".
Innanzitutto, non è riuscita ad attuare i cambiamenti strutturali indispensabili per il passaggio a economie produttive di mercato. Quote di popolazione varianti da Stato a Stato ma sempre elevate (ad esempio, in Zimbabwe oltre l'80%) continuano a sopravvivere praticando economie di sussistenza - agricoltura e pastorizia e, nei centri urbani, le varie attività del settore informale - dalle quali ri-I cavano scarse e irregolari risorse, insufficienti a superare la soglia della povertà.
La responsabilità ricade sulle leadership che si sono avvicendate alla guida degli Stati africani dopo le indipendenze. Con poche eccezioni, infatti, ne hanno approfittato per appropriarsi delle risorse nazionali e poi disporne, come fossero proprietà personali, per conservare il potere e soddisfare ambizioni di status sfrenate. Ne è risultato un saccheggio di ricchezze di portata quasi inimmaginabile. Tra i casi più clamorosi vi è quello della Nigeria, che ha una speranza di vita alla nascita di 46 anni pur producendo petrolio da decenni ed essendone il secondo maggior esportatore dell'Africa sub-sahariana. Dal 1960, anno dell'indipendenza, la corruzione ha sottratto ai fondi pubblici circa 350 miliardi di dollari. L'ultimo dei dittatori nigeriani, Sani Abacha, in soli cinque anni - dal 1993, quando prese il potere con un colpo di Stato, al 1998, anno della sua morte - ha stornato dalle casse statali 2,2 miliardi di dollari, secondo alcune stime addirittura il doppio. Pochi mesi dopo la sua scomparsa, una delle sue mogli fu fermata all'aeroporto di Abuja mentre si apprestava a lasciare il Paese portandosi appresso decine di valige colme di oggetti preziosi.

 

Le colpe della classe politica
La seconda sfida persa riguarda l'ambito politico.
Gli eroi delle guerre d'indipendenza avevano ottenuto la fiducia dei loro connazionali e la solidarietà internazionale promettendo democrazia e rispetto dei diritti umani.
Conquistato il potere, si può dire che nessuno abbia veramente mantenuto fede agli impegni presi e la maggior parte dei loro successori hanno fatto altrettanto. La conseguenza è che in Africa le istituzioni politiche spesso non sono altro che simulacri di democrazia, per di più utili a dissimulare il vero volto di governi che in realtà sono dittature anche feroci e quasi sempre incapaci e irresponsabili. Nel 2008, ad esempio, Kenya e Zimbabwe sono andati al voto solo per veder calpestata la volontà popolare chiaramente espressa e un colpo di Stato, a tre anni di distanza dal precedente, ha destituito in Mauritania Presidente e Primo ministro, consegnando il Paese a una giunta militare. Più subdolamente, altri leader - in Ciad, Uganda, Tunisia, Burkina Faso - negli scorsi anni hanno conservato il controllo dell'apparato statale imponendo la soppressione del limite di due mandati presidenziali per persona previsto dalla Costituzione: il che ha consentito loro di ricandidarsi e vincere, se necessario ricorrendo a brogli e intimidazioni. Quanto alle istituzioni tribali che limitano la libertà personale, infliggono violenze fisiche e morali e generano discriminazioni - matrimoni imposti e precoci, prezzo della sposa, mutilazioni genitali femminili, classi d'età... - i governi africani, salvo quelli che hanno adottato la legge islamica, oltre a firmare i protocolli non vincolanti a tutela dei diritti umani proposti dalle Nazioni Unite, hanno varato leggi che le proibiscono e che però in genere si guardano bene dal far rispettare non avendo alcun interesse ad alienarsi quel poco di consenso popolare di cui godono per difendere valori in cui non credono. Né hanno motivo di contrastare il tribalismo, a cui molti devono la fortuna politica, e neanche la crescente intolleranza religiosa che mina soprattutto i rapporti tra cristiani e islamici.
Ecco perché oggi in Africa la semplice applicazione della rivoluzionaria frase di san Paolo - "ogni creatura è bene" - può costare la vita. È successo alla missionaria laica Annalena Tonelli, uno dei tanti martiri cristiani, assassinata cinque anni fa, il 5 ottobre 2003, nel Somaliland. «È stata uccisa perché curava tutti» aveva commentato il vescovo di Gibuti all'indomani dell'attentato: senza badare cioè al clan d'appartenenza e assistendo potenti e reietti con la stessa dedizione e lo stesso amore.
Inoltre, Annalena Tonelli era impegnata nella lotta alle mutilazioni genitali femminili, una delle istituzioni su cui si fondano l'assoggettamento delle donne e quindi la struttura e l'organizzazione sociale tradizionale di centinaia di etnie in Somalia e nel resto del continente.
Due anni dopo, il 14 luglio 2005, in Kenya, veniva ucciso monsignor Luigi Locati, vicario apostolico di Isiolo. A meritargli la morte, nel suo caso, è stata la ferma decisione di accogliere nella scuola secondaria, da lui costruita con il sostegno finanziario dell'arcidiocesi di Vercelli, studenti di ogni etnia e religione, mentre le tribù islamiche dominanti nella regione pretendevano che l'accesso alla scuola fosse riservato a loro.

 



RICORDA

 

«Il disegno di Dio per la salvezza dell'Africa sta all'origine della diffusione della Chiesa nel continente africano. Essendo tuttavia la Chiesa, secondo la volontà di Cristo, per sua natura missionaria, ne segue che la Chiesa in Africa è chiamata ad assumere essa stessa un ruolo attivo al servizio del progetto salvifico di Dio. Per questo ho spesso detto che "la Chiesa in Africa è la Chiesa missionaria e di missione».
(Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, 14 settembre 1995, n. 29).

 



 

 

BIBLIOGRAFIA

 

L'esortazione apostolica Ecclesia in Africa, che papa Giovanni Paolo Il promulgò nel 1995 in seguito al Sinodo dei vescovi sull' Africa, è una lettura introduttiva al tema, fondamentale per i credenti ma importante per chiunque voglia conoscere l'opera svolta e i propositi della Chiesa cattolica nel continente africano.





IL TIMONE – N.78 - ANNO X - Dicembre 2008 - pag. 22 - 24

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