Sabato 13 Dicembre 2025

La Patria dei parà

 

 

 

Le testimonianze dei soldati italiani uccisi in Afghanistan e della gente comune accorsa ai loro funerali hanno rivelato che in Italia c’è ancora il senso di appartenenza a un popolo. Che resiste malgrado il pessimo spettacolo dei rappresentanti delle istituzioni; ma che chiede anche di essere riconosciuto e rafforzato.




«È un mio dovere essere qui». «Loro hanno dato la vita per noi, essere qui è il minimo che possa fare». Sono le voci di gente comune – raccolte da un Giornale Radio – che il 21 settembre affollava la Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma per i funerali dei sei parà della Folgore uccisi in Afghanistan il 17 settembre da un attentato kamikaze. Voci che dicono molto di più di tanti discorsi uditi e letti in quei giorni di lutto nazionale. Voci che hanno improvvisamente aperto uno squarcio su una Italia che quasi non ti aspettavi, assuefatti ormai alla lacerante polemica politica che non si ferma neanche davanti ai morti. È un’Italia che si sente parte di un popolo, che sente di appartenere a una patria, così che un giovane soldato in missione di pace in Afghanistan è percepito come uno che «ha dato la vita per noi». È lo stesso sentimento che hanno testimoniato i militari impegnati in Afghanistan e i loro familiari.
Roberto Valente, Massimiliano Randino, Davide Ricchiuto, Giandomenico Pistonami, Matteo Mareddu, Antonio Fortunato: sei soldati, sei storie di servizio all’Italia. «Era sua volontà diventare un parà per senso di appartenenza alla nazione», ha detto il sindaco di Nocera Superiore parlando del caporal maggiore scelto Randino. «Mi aveva detto che era pericoloso, ma non ha mai avuto segni di debolezza», ha detto orgogliosa la mamma del sergente maggiore Roberto Valente.
Soldati e gente comune, uniti da questo senso di appartenenza a un popolo.
Sentir parlare di patria, nazione, fa uno strano effetto in un Paese dove molti leader politici si vergognano di pronunciare queste parole. Eppure, senza questo senso di appartenenza non è neanche immaginabile operare per il bene comune, come ci ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2239). È consolante scoprire che, malgrado tutto, una realtà di popolo ancora resiste.
E ci dona un briciolo di speranza. Ma anche ci fa chiedere: che cosa ci rende popolo? Come è possibile che questo sentimento di appartenenza riprenda vigore, si diffonda, ci renda più forti?
È forse il Tricolore, o l’inno nazionale, o la Costituzione che ci fanno popolo? È vero che un popolo, una patria, ha bisogno di simboli comuni, di valori comuni in cui riconoscersi; ma non possono essere questi il fondamento. Lo si vede chiaramente dall’imbarazzo e dalla confusione con cui le forze politiche e le istituzioni stanno pensando alle celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia.
La realtà è che malgrado l’unità politica sia figlia di determinati eventi storici – che non possono essere affrontati in questa sede –, l’unico fondamento del popolo italiano sta nella fede cristiana, le sue radici hanno ben più di 150 anni. Divisi da Nord a Sud per dialetti, costumi, modi di pensare, usanze, noi italiani siamo uniti soltanto dal cattolicesimo che, nei secoli, ha dato un significato unico al nostro cammino. Così che le diversità, da fonti di conflitto sono diventate espressioni di ricchezza culturale. Basterebbe guardare a chiese e monumenti che, da Nord a Sud, raccontano la storia di questo Paese.
Ma basterebbe anche ascoltare le testimonianze dei cappellani militari che seguono i nostri soldati nelle missioni all’estero, per capire come il servizio alla patria vada di pari passo con l’approfondimento della fede, stimolato dalle dure circostanze in cui i militari si trovano ad operare. Non solo: come ha detto in una intervista ad Avvenire l’ordinario militare, arcivescovo Vincenzo Pelvi, per i soldati le missioni all’estero «hanno inizio e mai un termine», perché l’incontro con popolazioni in condizioni così precarie prolunga nel tempo l’opera dei militari, che è un frutto della carità: «Le missioni – dice mons. Pelvi – si prolungano in Italia attraverso gesti concreti che vanno dall’accoglienza presso le abitazioni dei militari di bambini, all’adozione a distanza di famiglie. Dalla creazione di iniziative per il sostegno di fasce deboli della popolazione all’assistenza sanitaria di malati curati presso strutture o famiglie in Italia».
Anche questo ci fa capire che quella in Afghanistan è una vera missione di pace, malgrado sia diventato di moda dire che sia un’operazione di guerra. Come se una missione di pace non dovesse mettere in conto anche la possibilità di combattere. Del resto, se un’operazione di pace non dovesse comportare rischi di combattimento, perché inviare dei soldati? Basterebbe inviare dei funzionari, dei burocrati qualunque. Invece, a volte è necessario usare la forza per difendere le persone di cui siamo responsabili (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2265). E non a caso sia l’ordinario militare nell’omelia ai funerali dei parà, sia il Papa nell’Angelus del 20 settembre – sebbene ignorati dai media – hanno insistito nel definire quella in Afghanistan una missione di pace. Il Papa ha espresso partecipazione ai contingenti militari «che operano per promuovere la pace e lo sviluppo delle istituzioni, così necessarie alla coesistenza umana». E monsignor Pelvi si è soffermato sulla «responsabilità di proteggere» come «principio divenuto ragione delle missioni di pace». Ancora più esplicitamente l’ordinario militare, nella già citata intervista ad Avvenire, affermava chiaramente che «la nostra missione in Afghanistan (…) è di pace, perché porta stabilità e sviluppo per le popolazioni locali. (…) Grazie alla nostra presenza le popolazioni locali possono avere speranza per un futuro più prospero e rispettoso dei diritti umani. (…) E serve a difendere anche la nostra sicurezza nazionale e quella dell’intero Occidente dalla minaccia del terrorismo globale».
In fondo, se l’Italia ha mantenuto attraverso i secoli la propria fede cristiana, se ha potuto crescere in prosperità e libertà, se ha evitato di cadere nel buio che oggi avvolge i Paesi arabi, è grazie ai soldati e ai combattenti (diversi di loro anche proclamati santi) che hanno difeso il nostro suolo dall’aggressore. Una lezione che purtroppo oggi sembra dimenticata da tanti rappresentanti dello Stato. Così che assistiamo al paradosso di una missione
all’estero che punta eroicamente a sconfiggere l’aggressore fondamentalista sul suo terreno mentre in casa nostra lasciamo che il fondamentalismo dei burqa e della sharia prenda tranquillamente il sopravvento. Senza neanche combattere.






RICORDA
«La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità».
(Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2265)


 


IL TIMONE N. 87 - ANNO XI - Novembre 2009 - pag. 18 - 19

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