Giovedì 23 Ottobre 2025

La battaglia (quasi ignorata) di Papa Francesco contro il riarmo

Il pontefice argentino si è sempre speso senza se e senza ma per la pace. Anche spiazzando tanti

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Era il 12 marzo scorso quando il Parlamento Europeo approvava con 419 voti a favore, 204 contrari e 46 astenuti una risoluzione a sostegno del piano ReArm Europe – mobilitare fino a 800 miliardi di euro da investire nel settore della Difesa – presentato il giorno prima di fronte alla plenaria di Strasburgo dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen con toni inequivocabili: «Il tempo delle illusioni è finito», «Putin ha dimostrato più volte di essere un vicino ostile. Non può essere considerato affidabile, può solo essere dissuaso», «È il momento di costruire un’Unione Europea della Difesa che garantisca la pace attraverso l’unità e la forza». Si vis pacem para bellum, insomma, sentenziava la Von der Leyen, invitando anche ad apprezzare la convenienza economica del piano, della serie paghi uno e prendi due, perché «ReArm Europe […] porterà benefici anche alla nostra economia: saranno necessarie nuove fabbriche e linee di produzione, creando posti di lavoro di qualità in Europa». Di fronte a questo improvviso entusiasmo per l’industria pesante, anzi pesantissima, da parte di una Ue che fino al giorno prima vedeva come nemico da abbattere il diesel e tutta la manifattura che non fosse a emissione zero, di fronte alla trasformazione del colore della speranza, il green alla Greta Thunberg, in un sinistro verde militare, mentre anche gran parte del mondo pacifista – laico e cattolico – si allineava con una certa naturalezza alle nuove direttive comunitarie, il Papa il 18 marzo inviava una lettera al Corriere della Sera il cui messaggio di fondo, pur nel linguaggio diplomatico, era chiaro: «Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra. C’è un grande bisogno di riflessione, di pacatezza, di senso della complessità». Ovvero, ReArm Europe anche no. Quella presa di posizione è stata abbastanza ignorata dal sistema mediatico pro Ue e la Von der Leyen si è guardata bene dal citarla nel suo messaggio di cordoglio per la dipartita di Francesco. Vale la pena ricordarla, quindi, in questi giorni di inventario di un pontificato. Va riconosciuto che il Papa argentino nel trattare certi dossier scottanti di politica estera – la guerra in Ucraina, la tragedia israelo-palestinese, il rapporto con l’Iran – è riuscito a mantenere un «senso della complessità» delle dinamiche in atto che lo ha visto smarcarsi di volta in volta dal mondo liberal statunitense, dalla Ue delle varie Kaja Kallas, da certo establishment progressista di casa nostra o da altri poteri a cui è stato spesso associato come linea “politica”. Per esempio, il Bergoglio che pur aveva investito molto da cardinale prima e da Papa poi nel rapporto con il mondo ebraico e israeliano, non ha mai edulcorato i suoi giudizi sui crimini compiuti a Gaza – nemmeno su quelli del 7 ottobre – e non ha mai schermato la sua vicinanza alla popolazione della Striscia, a costo di alienarsi antichi favori. Lo ha fatto fino a instaurare un rapporto strettissimo, fatto di una telefonata al giorno cascasse il mondo, con il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli, sacerdote argentino che appartiene a una vitale congregazione nata in argentina, l’Istituto del Verbo Incarnato, che sicuramente Bergoglio non aveva amato quando lui era in Argentina e che proprio sotto il suo pontificato è finito commissariato, insieme al ramo femminile altrettanto vitale e ancor più fiorente: ennesimo, piccolo ma significativo paradosso di un papato che non ha avuto nella linearità e prevedibilità un tratto distintivo. ABBONATI ORA ALLA RIVISTA!

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