Tra il rumor mediatico di chi inneggia alla «disobbedienza civile» - cit. Marco Cappato - ci scordiamo di una cosa fondamentale quando si parla di suicidio assistito.Che sarebbe bene prevenirlo, anziché facilitarlo. A farlo presente con forza sono state quattro persone che vivono una condizione di malattia - Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon e P.G.F. - che hanno chiesto di essere ammessi in giudizio per dire la propria. Intanto ce l’hanno fatta, prima buona notizia. Secondo dato positivo è che tramite i loro avvocati hanno portato alla luce temi che la Consulta ha potuto recepire. La mancanza di cure palliative, le derive mortifere che trascina con sé il suicidio assistito, solo per nominarne alcune tra le più importanti.
La Corte con la sentenza n. 66 depositata ieri ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da uno dei casi giudiziari provocati dai membri dell’Associazione Coscioni. Il tentativo degli attivisti pro-eutanasia si può leggere come una richiesta di “allentamento” del criterio relativo ai trattamenti di sostegno vitale (fermo dal 2019, con la sentenza sul caso Fabo-Cappato) con altri tre: irreversibilità della patologia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili per il paziente, capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli. Si capisce bene che messa così non si fa più riferimento a un selezionato gruppo di persone, bensì a una potenzialmente ben più larga cerchia.
Ad oggi infatti la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale è il requisito necessario per essere ammessi al percorso di suicidio assistito, ma le cure palliative offerte in Italie non sono garantite, come invece dovrebbero. «Non è costituzionalmente illegittimo», spiega la Corte, «subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale». Si apprende dal comunicato degli avvocati del Centro studi Livatino: «La Corte, con la sentenza n. 66 depositata oggi, 20 maggio, non solo non estende le ipotesi di suicidio assistito non punibile, ma, ancor di più, afferma il dovere stringente dello Stato di garantire sostegno sociale e sanitario al malato». Gli avvocati Carmelo Leotta e Mario Esposito insieme ai loro quattro assistiti hanno manifestato soddisfazione per l’esito del giudizio che pone in primo piano la cura delle persone malate.
Il messaggio è chiaro: prima le cure. Sono stati nuovamente e con rinnovata forza auspicati gli interventi legislativi per depenalizzare il suicidio assistito. La nuova sentenza della Corte «è un grande contributo di chiarezza a un dibattito pubblico spesso condotto per condurre surrettiziamente verso la “cultura dello scarto” (Papa Francesco)», a scriverlo in una nota il network di oltre cento associazioni “Ditelo sui tetti”. Spiegano le associazioni che con la sentenza n. 66 si ribadisce la volontà del sistema sanitario di non procurare la morte, ma di introdurre unicamente una eccezionale «area di non punibilità» dell’aiuto al suicidio che sia stato condotto volontariamente da singoli esercenti le professioni sanitarie.
La Corte ha rammentato che «costituisce preciso dovere della Repubblica garantire “adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte». Parole forti, a cui speriamo possano seguire velocemente fatti. E chi criticava la «mancanza di una legge chiara» non potrà che restare con l’amaro in bocca leggendo quella che di fatto sembra più una sentenza chiarificatrice delle precedenti. Prima il favor vitae, più chiaro di così. (Fonte foto: Imagoeconomica)
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