Lunedì scorso Martina Carbonaro è stata ritrovata morta in un vecchio casolare diroccato, uccisa a soli 14 anni. Il suo cadavere si trovava sotto un vecchio armadio tra i rifiuti. Nessun segno di violenza sessuale, ma ferite che sembrano essere state causate da almeno quattro colpi violenti con un corpo contundente, si pensa a una pietra. Si legge dall’ispezione del medico che la giovane è stata colpita «selvaggiamente e ripetutamente» ed è morta al termine di un’agonia dovuta a una forte perdita di sangue.
I carabinieri e il pm della Procura di Napoli Nord hanno ottenuto la confessione di Alessio Tucci, l’ex fidanzato quasi diciannovenne, ora accusato di omicidio pluriaggravato e occultamento di cadavere. «Mi aveva lasciato», queste le parole del giovane che più volte aveva cercato di ristabilire la relazione invano. Quell’incontro doveva essere l’ultimo, ed è stato fatale. «Non solo ci ha contattato, ma si è anche presentato a casa nostra e piangeva. E quelle lacrime erano vere, ma io ho subito sospettato di lui», così la madre di Martina, Fiorenza Cossentino, parla di Alessio.
«Ci ha parlato come se nulla fosse», risponde in un’intervista a La Stampa, «l’aveva giù uccisa. Alessio ha finto. Ha finto molto. Ha finto su tutto. […] Ad un certo punto, l’altra sera gli abbiamo anche chiesto se le avesse fatto qualcosa di male e lui ha risposto che Martina non l’aveva mai toccata. Ha detto proprio così: che non le avrebbe fatto nulla di male». Questi i fatti in tutta la loro drammaticità. Senza considerare che ora passando al vaglio i social si scoprono lettere d’amore, dichiarazioni e promesse di “per sempre”. E quelle parole dedicate ad Alessio, che a leggerle ora bruciano: «Le tue mani che curiose vagano sul mio corpo pronte ad allontanare ogni male». Senza considerare il grido lancinante di una madre che si domanda «come si affronta tutto questo?» e che chiede l’ergastolo, che sia fatta giustizia.
L’istinto è quello di correre ai ripari. Allora le mamme rabbiose si raccolgono sotto lo slogan: «Educate i vostri figli al rispetto delle donne». C’è chi dà la colpa alla politica rilanciando l’educazione sessuale e affettiva - o diseducazione? - come panacea per tutti i mali; chi parla di possesso, incapacità di reggere la frustrazione e ovviamente anche di nuovo patriarcato. Sembra infatti oggi scontato racchiudere sotto il grande ombrello di questa parola tutti i moventi dei femminicidi. Solo per fare un esempio, ieri, Raffaella Paita, senatrice di Italia Viva, ha chiesto una seduta straordinaria in Senato dicendo: «Serve con urgenza una strategia seria e trasversale, che coinvolga le scuole, le famiglie, la società. Dobbiamo formare le nuove generazioni al rispetto, all’affettività, alla consapevolezza».
Sembra la formula vincente. Eppure qualcosa deve essere andato storto.Oggi in classe si potrà pur parlare di rispetto, ed è sacrosanto. Ma poi una volta usciti da quella porta che cosa trovano i nostri ragazzi? O meglio, appena riacceso lo smartphone di che cosa si nutrono? Tornati a casa quali valori imitano? Spieghiamoci meglio. Lanciando ogni nostra accusa al presunto patriarcato mettiamo sotto al tappeto altri fattori rilevanti e scottanti. Per esempio, che i bambini già all’elementari vengono investiti da immagini violente. Che alle nostre bambine di cinque anni si chiede se hanno il “fidanzatino” e più avanti a 11-12 anni sarà facile scambiarle per delle diciottenni.
Perché se a quattordici anni hai già una relazione importante da due, qualcosa deve essere andato storto e qualcuno deve pur dirlo. E che sia un problema ricordare ai nostri ragazzi solo di usare il preservativo - con tanto di mamme che preparano la scorta - va detto con una certa urgenza. Abbiamo tolto ai bambini la fanciullezza e l’ingenuità. Agli adolescenti la possibilità di ascoltare parole di amore, di dignità, di decenza - questa parola sconosciuta. E diremo di più. Oggi ci allarmiamo di fronte al 30% di adolescenti (14-19 anni) che ritiene normale toccare o avere rapporti sessuali senza il consenso dell’altra persona - dati della Survey Teen 2024 della Fondazione Libellula - ma non ci spaventa che ai nostri bambini della materna venga proposto il “gioco del dottore” per toccarsi e sperimentare con il proprio corpo.
Vogliamo giovani iper controllati (geolocalizzazione, registro elettronico, eccetera) - e totalmente deresponsabilizzati -, ma allo stesso tempo concediamo loro di accedere a internet a nove anni. Per silenziare i bambini gli concediamo un’esposizione agli schermi di ore e ore. Per poi ritrovarceli dipendenti da smartphone, challenge pericolose e pornografia alla soglia del liceo. Chiediamo loro in continuazione «come ti senti?» perché “convalidare le proprie emozioni” is the new “a letto senza cena”, ma poi ci scordiamo che di quelle stesse emozioni qualcuno se ne deve far carico. E dovrebbe essere l’adulto di riferimento. Quell’esemplare con lo smartphone incorporato al braccio e l’airpod incollato all’orecchio, perché quella call di lavoro non era procrastinabile anche se te, figlio, hai bisogno di essere guardato e ascoltato.
Quello che c’è ma non è presente. Quello che non sa più dire un “no”. Quello che i capricci non li tollera perché è più semplice accendere un tablet. Quello che sovvenziona qualsiasi attività extra scolastica, quasi a gareggiare con gli altri genitori. Allora diciamo una cosa molto vintage e medievale: se la famiglia non fa il suo, non ci sarà corso di educazione all’affettività che tenga. Altrimenti è facile che proseguiremo col crescere “piccoli Joker” (come li abbiamo definiti sulle pagine del primo piano del Timone di gennaio) per poi ritrovarci a reclamare con sconcerto «era un bravo ragazzo» o «era innamorata». (Fonte foto: Ansa)
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