La Corte Costituzionale dovrà decidere sull’eutanasia. Dopo essere stata più volte del tema del suicidio assistito, la Consulta a breve sarà chiamata ad affrontare un caso che potrebbe portare allo sdoganamento della «dolce morte». Per capire come ciò potrebbe essere possibile, occorre però fare un piccolo passo indietro riepilogativo. Esistono infatti già almeno due pronunciamenti significativi della Corte Costituzionale che hanno stabilito, a certe condizioni, la non punibilità del suicidio assistito nel nostro Paese: si tratta delle sentenze numero 242 del 2019 e 135 del 2024. Sono sentenze spesso citate dai paladini del cosiddetto “diritto di morire”, ma quasi mai illustrate in modo compiuto e corretto.
Sì, perché se è vero che la sentenza 242 del 2019 sancisce la parziale illegittimità della punizione dell’aiuto al suicidio, così com’era prevista dal nostro ordinamento, dall’altro è altrettanto vero che stabilisce che non sia punibile chi agevola l’esecuzione del suicidio, purché sussistano cinque condizioni: che l’aspirante suicida abbia maturato il proposito liberamente; che sia tenuto in vita da trattamenti di sostengo vitale; che sia affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche non tollerabili; che esse siano adeguatamente verificate da una struttura pubblica; che il soggetto – come si legge nella motivazione - «sia stato informato […] in ordine alle possibili soluzioni alternative, con riguardo all’accesso alle cure palliative».
Un richiamo, quello in favore delle cure palliative, presente anche nella sentenza 135 del 2014, che afferma a chiare lettere che «deve essere confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza n. 242 del 2019 (punto 2.4. del Considerato in diritto), affinché, sull’intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti […] una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge n. 38 del 2010, sul cui integrale rispetto giustamente insiste l’Avvocatura generale dello Stato», assicurando, innanzitutto, «la previsione delle necessarie coperture dei fabbisogni finanziari». Tali considerazioni e i succitati requisiti per l’accesso al suicidio assistito non devono essere stati molto graditi al mondo radicale, che infatti più volte è ricorso alla Consulta, anche ottenendo verdetti sfavorevoli.
Sfavorevole ai radicali, per esempio, è infatti sicuramente stata la sentenza 66 del 20 maggio 2025, con cui la Consulta – investita nuovamente della questione suicidio assistito – non solo non ha esteso le ipotesi in cui l’aiuto ad esso non sia punibile, ma pure affermato a chiare lettere il dovere stringente dello Stato di garantire sostegno sociale e sanitario al malato. Forse è per questo motivo – tornando a noi –, che il mondo radicale sembra aver mollato la presa, almeno per il momento, con il suicidio assistito, sottoponendo ora all’attenzione della Corte Costituzionale direttamente la “dolce morte” nella sua modalità più classica, per così dire, quella eutanasia.
L’occasione per tale ricorso è venuta a partire dal caso di “Libera” - nome di fantasia scelto da una signora toscana di 55 anni -, la quale, completamente paralizzata per una sclerosi multipla, ha ottenuto dalla sua Regione accesso al suicidio assistito. Tuttavia non può morire. Il motivo? La sua completa paralisi non le consente di autosomministrarsi il farmaco letale, così come appunto di norma prevede la pratica del suicidio assistito – mentre invece l’eutanasia prevede che a dare la morte sia una figura terza. Assistita dai suoi legali, “Libera” ha così fatto un ricorso d'urgenza al Tribunale di Firenze per chiedere che sia il suo medico a somministrarlo.
Da parte sua, il 30 aprile scorso il Tribunale fiorentino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale per l'articolo 579 del codice penale che, come noto, punisce l'omicidio del consenziente. La questione è finita così sul tavolo della Consulta, che la tratterà nell’udienza fissata per l’8 luglio. «La causa verrà discussa a inizio luglio - credo a tempo di record per un giudizio in via incidentale, visto che l’ordinanza di rimessione è del 30 aprile -», ha osservato Filippo Vari, professore ordinario di Diritto costituzionale nonché vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino. Il giurista ha anche illustrato bene in un suo recente intervento il senso di questo ricorso.
«Si mira», ha infatti spiegato Vari, «a ottenere le stesse condizioni, già indicate dalla Consulta per la mancata punizione dell’assistenza al suicidio, anche per l’omicidio del consenziente, con ciò dimostrando che una legge ispirata alla logica della giustificazione della condotta di assistenza al suicidio non sarebbe un punto fermo, ma un piolo verso il traguardo dell’eutanasia on demand». Insomma, considerando anche che il Parlamento e la stessa maggioranza si accingono a depositare e a discutere una norma sul fine vita, l’udienza del prossimo 8 luglio presso la Corte Costituzionale appare veramente «decisiva», come ha ammesso lo stesso Marco Cappato.
Se difatti la Corte Costituzionale dovesse riprendere quanto aveva già stabilito con la sentenza 242 del 2019, si arriverebbe – sia pure a certe condizioni e fissati determinati requisiti -, la causa che ha per protagonista la signora “Libera” potrebbe portare ad una depenalizzazione dell’eutanasia, con tutto ciò che socialmente comporta, senza dimenticare poi le ricadute per la professione medica. Non resta pertanto che augurarsi che, nella Consulta, prevalga la prudenza già emersa con la sentenza 66 del 20 maggio scorso, quando ha denunciato le «derive sociali o culturali che» inducono «le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso». (Foto: Pexels.com)
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