A seguito dell’intervento di ieri dell’avvocato Domenico Menorello, membro del Comitato nazionale di bioetica e promotore del network “Ditelo Sui tetti”, abbiamo ricevuto e volentieri pubblichiamo un altro contributo in merito al dibattito sul ddl c.d. "fine vita" che risponde nel merito alle valutazioni dell’avvocato. Dal nostro punto di vista riteniamo, oltre quanto già espresso ieri citando la Dichiarazione Samaritanus Bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede (oggi Dicastero), che non serve una legge, ma come precisa nell’intervento a seguire il dottor Renzo Puccetti, medico e bioeticista, «ben venga il dibattito, se questo serve ad evitare tragici errori». (Lorenzo Bertocchi)
*
Ho letto con interesse
il contributo dell’avvocato Domenico Menorello che su queste pagine ha offerto un ulteriore indicazione sulla sua posizione in merito al disegno di legge (ddl) circa la regolamentazione del suicidio assistito, oltre quella già espressa sulle colonne del quotidiano
Avvenire.
Il mio parere di medico, bioeticista e laico impegnato per molti anni nelle attività pro-life è che il ddl approvato in commissione è incompatibile con la dottrina morale espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) e il magistero della Chiesa Cattolica che non richiedono come necessario un atto di fede o di cieca obbedienza, ma che si basano sulla legge naturale, conoscibile da ogni uomo attraverso il retto uso della ragione.
Dalla riflessione che mi accingo ad esporre sono escluse possibili modifiche che dovessero essere apportate durante l’iter parlamentare che comunque, per mutare il giudizio sulla legge dovrebbero essere tali da stravolgere l’impianto del progetto di legge stesso nel senso che mi accingo a chiarire.
Alcuni riferimenti dottrinali
Per sostanziare la mia posizione ritengo essenziale fornire al lettore meno esperto alcuni elementi propedeutici fondamentali che elenco sommariamente con i riferimenti dottrinali e magisteriali:
- Il primo principio della legge naturale è che “bisogna fare e cercare il bene e bisogna evitare il male” (cfr. S. Th Q. 94, A. 2, ESD 2014, vol. II, p. 916).
- La moralità degli atti umani dipende dall’oggetto scelto, dal fine che si prefigge o dall’intenzione, dalle circostanze dell’azione (CCC n. 1750)
- L’oggetto scelto è “la materia di un atto umano” (CCC n. 1751), è la risposta alla domanda sul “che cosa” fa una determinata azione.
- “l'intenzione si pone dalla parte del soggetto che agisce. Per il fatto che sta alla sorgente volontaria dell'azione e la determina attraverso il fine, l'intenzione è un elemento essenziale per la qualificazione morale dell'azione. Il fine è il termine primo dell'intenzione e designa lo scopo perseguito nell'azione. L'intenzione è un movimento della volontà verso il fine” (CCC n. 1752). È la risposta alla domanda del “perché?” si compie una determinata azione.
- “Le circostanze, ivi comprese le conseguenze, sono elementi secondari di un atto morale” (CCC n. 1754)
- “L'atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell'oggetto, del fine e delle circostanze. Un fine cattivo corrompe l'azione, anche se il suo oggetto, in sé, è buono (CCC n.1755) […] È quindi sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l'intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, ecc.) che ne costituiscono la cornice” (CCC n. 1756).
- “Vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene” (CCC n. 1761). “L'elemento primario e decisivo per il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio” (Veritatis splendor n. 79). “Si danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come «non-ordinabili» a Dio […] Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze” (Veritatis splendor n. 80).
- “Le leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica […] Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante” (Evangelium vitae n. 72).
- La differenza tra male minore e bene possibile. Mentre il male minore è una azione in se stessa volta a ridurre un male compiendo al suo posto un altro male di portata inferiore, il bene possibile è una azione in se stessa buona, seppure incapace di compiere il massimo bene in quanto impedito non da una propria deliberazione, ma dalla scelta di altri. Diversamente da chi compie un bene che nelle circostanze date alla sua libertà è il massimo possibile, l’agente che compie il male minore compie comunque un male (F. Roberti, P. Palazzini. Dizionario di teologia morale, Studium, roma,1961 p. 939). Tale differenza è implicitamente assunta dal magistero all’interno della formulazione del principio del duplice effetto che prevede, come clausola permissoria inderogabile che l’azione che produce l’effetto malvagio sia moralmente buona o almeno indifferente (Pio XII. Discours du Pape Pie XII en réponse à trois questions religieuses et morales concernant l’analgésie. 24-2-1957).
- L’atteggiamento corretto del politico chiamato ad agire di fronte a leggi ingiuste. “Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto […] Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui” (Evangelium vitae n. 73).
Il ddl c.d. “fine vita”
Il ddl, su cui l’avvocato Menorello ha opinioni divergenti da quelle
espresse su La Nuova Bussola quotidiana dal dottor Tommaso Scandroglio, è quello che regola il suicidio assistito in Italia in cui, la sentenza 242/2019 che ha abrogato l’articolo 580 del c.p. ove si puniva l’aiuto al suicidio in presenza di 4 criteri verificati in ambito medico, la cui sussistenza “dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto”:
- presenza di una patologia irreversibile
- grave sofferenza fisica o psicologica
- dipendenza da trattamenti di sostegno vitale
- capacità di prendere decisioni libere e consapevoli tra cui rientra l’adeguata informazione “in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”.
Il quadro attuale ha visto, dopo la sentenza dei giudici costituzionali, l’aggiungersi di quattro provvedimenti dei medesimi giudici (207/2018, 242/2019, 135/2024, 66/2025) che denunciano come “inerzia” la mancanza di una produzione legislativa in materia da parte dell’organo legislativo e un insieme di alcune sentenze dei giudici di merito, nonché di produzioni legislative da parte di alcune Regioni (vd. La legge della regione Toscana n. 16/2025), volte ad interpretare i punti fissati nella sentenza 242 in senso estensivo.
In estrema sintesi il ddl è composto di 4 articoli.
Dichiarazione sul diritto alla vita: “Il diritto alla vita è diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall'ordinamento” (art. 1)
“Ricezione integrale dei requisiti di non punibilità dell’aiuto al suicidio assistito stabiliti dalla sentenza 242/2019” (art. 2)
“Potenziamento economico e organizzativo delle cure palliative” (art. 3)
“Descrizione della procedura per ottenere la non punibilità del suicidio assistito con istituzione di un comitato di valutazione nazionale, la sua composizione, la durata, la modalità operativa. Inoltre si prevede che ai fini della procedura suicidaria il personale in servizio, i farmaci e le strumentazioni di cui dispone a qualsiasi titolo il Servizio sanitario nazionale non possono essere impiegati” (art. 4).
Un giudizio sul ddl
Esaurita questa necessariamente articolata introduzione, resta da formulare il giudizio sul disegno di legge alla luce dei principi enunciati.
Se l’articolo 1, 3 e in parte l’articolo 4, laddove prevede la non gratuità della procedura non pongono problemi di illiceità morale, anzi sono meritori di plauso, altrettanto non si può dire dell’articolo 2. L’oggetto morale di votare a favore di un tale articolo è favorire e facilitare il suicidio assistito, attraverso l’abrogazione della sanzione penale di chi aiuta nella sua relazione. Il fatto che la depenalizzazione sia già operativa dopo la sentenza della Corte Costituzionale non sposta assolutamente i termini. Lo si comprende facilmente valutando le responsabilità morali. Chi adesso aiuta il suicidio assistito lo fa dopo essere autorizzato da un giudice di merito che è responsabile morale diretto del provvedimento. Tale responsabilità non viene meno dall’invocazione da parte di questi di avere ubbidito a quanto stabilito dai giudici costituzionali; l’agire per un preciso ordine ricevuto non assolve il sottoposto moralmente (ed in certi casi anche legalmente, come,
mutatis mutandis, provano le decisioni dei tribunali di Norimberga).
Nella situazione attuale le responsabilità all’azione moralmente illecita del suicidio assistito coinvolgono il suicida, chi lo aiuta, il giudice che l’autorizza e i giudici costituzionali che hanno votato a favore della sentenza. In presenza della legge nella catena di responsabilità il giudice di merito verrebbe sostituito dal comitato di valutazione istituito da quella legge che fosse approvata da deputati e senatori che tutti, ciascuno secondo la propria parte, condividerebbero la cooperazione al suicidio e dunque la responsabilità morale.
Il “parere” rilasciato dal comitato svolge la stessa funzione del documento rilasciato dal ginecologo non obiettore, è titolo abilitante ad ottenere la procedura, la valutazione dell’autorità giudiziaria è solo eventuale. I membri del comitato, quando dovessero autorizzare la procedura, sarebbero dunque responsabili moralmente del suicidio assistito tanto quanto lo è il ginecologo non obiettore che firma il documento in cui si attestano le condizioni previste dalla legge 194 per abortire e i parlamentari sarebbero responsabili tanto quanto i parlamentari che votarono a favore della legge 194. Sono infatti numerose ed impressionanti le analogie con la legge 194: si tratta in entrambi i casi di legge cosiddette procedurali in cui la condotta non è punibile ai sensi del codice penale se viene rispettata la procedura prevista nella legge. In questo senso non si comprende in che modo la legge all’esame “proteggerebbe la vita più di quanto avverrebbe in assenza di detta nuova disposizione”; anche adesso gli articoli del c.p. sul suicidio non abrogati dalla sentenza sono perfettamente in vigore.
Sia nella legge 194 che in questo ddl all’articolo 1 viene formulata un’affermazione di principio che nel concreto nel proseguo viene apertamente contraddetto. Come per l’aborto la legge fu varata per adempiere a quanto sancito dalla Corte Costituzionale (n. 27 del 1975), anche qui si legifera sotto dettatura della stessa Corte. Come per l’aborto si giustificò il varo della legge con l’intenzione di evitare un ulteriore allargamento sotto la spinta del referendum radicale che si sarebbe dovuto svolgere nel 1976, anche qui i sostenitori del ddl sul suicidio assistito giustificano l’approvazione della legge con l’intenzione d’impedire maggiori mali provenienti da giurisprudenza e amministrazioni regionali. Se vi è una differenza che salta all’occhio, è che in questo ddl non è prevista obiezione di coscienza che almeno testimonia un bene e tutela la libertà di coscienza da possibili obblighi. Se dunque, come scriveva San Giovanni Paolo II, le leggi che legalizzano l’aborto sono leggi ingiuste, non si capisce come una legge ingiusta come quella oggi in discussione possa essere diversa; delle due l’una: o sono entrambe ingiuste, o sono entrambe giuste, ma per un cattolico e pro-life questo non è ammissibile.
L’applicabilità al caso del n. 73 Evangelium vitae
Il n. 73 di
Evangelium vitae che abbiamo citato non può in nessun caso essere interpretato come lasciapassare al suo varo. Le “proposte mirate a limitare i danni di una legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica” deve essere interpretato alla luce della dottrina sugli assoluti morali, non come una sua eccezione accordata ai legislatori. La votazione prevede sia un voto sull’articolo 2 che un voto finale, favorevole o contrario, sull’intera legge e così il voto favorevole, al di là della buona intenzione di volere limitare il suicidio assistito e al di là delle circostanze, che abbiamo visto non mutano la qualifica morale dell’atto, fa dei parlamentari corresponsabili oggettivi del nucleo della legge che la qualifica moralmente: l’esistenza di vite immeritevoli di vita, un principio che il dottor Leo Alexander, capo del collegio peritale per l’accusa nei processi di Norimberga, aveva individuato quale “cuneo infinitamente piccolo” ispiratore e motore delle politiche naziste riguardo gli indesiderabili (NEJM 1949; 241: 39-47). Con una metafora potremmo dire che il primo chiodo per crocifiggere la giustizia è la sentenza 242, ma questa legge è l’altro chiodo, definirli “aspetti meno lineari” mi sembra riduttivo e fuorviante.
Peraltro, sotto il profilo delle conseguenze prevedibili, è tutto da dimostrare che i “paletti” che con la legge si intendono stabilire siano efficaci e possano reggere agli assalti della giurisprudenza; in questo senso la fine della legge 40 qualcosa dovrebbe avere insegnato. Nel caso specifico la non rimborsabilità della procedura uccisiva può essere finanziato con fondi propri regionali e il comitato di valutazione nazionale, il termine di 60+30 giorni di tempo per esprimersi, sono esempi di limiti che possono apparire irragionevolmente ostativi di quello che i giudici hanno individuato come diritto costituzionale. Sostituire nella legge la dizione della sentenza “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” con “trattamenti sostitutivi di funzioni vitali” si pensa sia un modo efficace di evitare le derive dei giudici? A titolo di esempio, se si vuole interpretare i termini in senso lato, la banale insulina è un trattamento sostitutivo della funzione vitale glico-metabolica. Quanto al criterio di irreversibilità della patologia stabilito dalla Consulta per accedere al suicidio assistito, il termine si adatta ad ogni patologia cronica ed è esattamente riportato anche nel ddl; dunque non si comprende come riproporlo sarebbe in grado di limitare “l’aggressione alla vita dei più fragili” e un siffatto “intervento normativo ne ridurrebbe la portata”. Si consideri anche gli effetti sul piano della formazione delle coscienze in un contesto in cui il positivismo giuridico fa da padrone e tende a giudicare giusto ciò che è legale. Si pensi altresì all’impaccio arrecato alla promozione dei valori: con quanta più difficoltà il laicato pro-life potrebbe esercitare la propria azione culturale se avesse sostenuto l’approvazione di un provvedimento che fa del suicidio assistito una legge dello Stato?
Non risulta che non vi siano alternative ad una legge come quella varata in commissione; l’indisponibilità delle strutture pubbliche e la proclamazione ideale del diritto alla vita e la indisponibilità dell’impiego delle strutture del SSN per l’adempimento di quanto stabilito dalla Consulta potrebbero benissimo essere deliberazioni formulate ed approvate anche senza la minima concessione a quanto stabilito dai giudici, così come un articolo in cui si vietasse qualsiasi estensione interpretativa della sentenza in merito a irreversibilità della patologia e ai trattamenti di sostegno vitale. E in positivo, idealmente potrebbe anche essere proposta una legge di rango costituzionale che abrogasse la sentenza 242/2019. Se i cattolici devono essere fermento in una società che ha smarrito l’orizzonte di Dio e dei principi morali, allora dai cattolici eletti non ci aspettiamo niente di meno che questo: testimoniare la loro fede tra colleghi pagani teologici e morali, testimoniare che le parole degli apostoli, sono vere anche oggi: “è meglio ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5:29). E se anche ogni sforzo e tentativo dovesse dimostrarsi vano, allora resterebbe comunque un bene enorme: avere testimoniato la verità ed avere conservato la purezza di cuore.
Ben venga il dibattito, se questo serve ad evitare tragici errori. È tuttavia grave che l’attuale maggioranza politica non l’abbia avviato in modo preventivo con quel mondo di cattolici che per decenni hanno sostenuto le battaglie a favore della vita umana indifesa.
*Specialista in Medicina Interna, docente di bioetica