Giovedì 23 Ottobre 2025

La tesi pro suicidio assistito non tiene: nessuna malattia toglie dignità

L'idea che un essere umano possa ritrovare la sua dignità morendo è ideologica, spiega il bioeticista Renzo Puccetti

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Sul recente caso di suicidio assistito si sono dette molte cose. Vorrei soffermarmi su un aspetto spesso trascurato, forse perché si dà per scontata la sua corretta comprensione: il concetto di dignità. Prendo come punto di partenza una frase rilasciata ai media da un’amica della donna che ha scelto il suicidio assistito: “La mattina di lunedì 21 luglio la mia amica Laura non mi ha insegnato come si va a morire. Lunedì mattina Laura mi ha ricordato come si vive. La dignità che la malattia le ha tolto, lei l’ha riconquistata nella battaglia che ha fatto per sé stessa e per tutti noi.” Una dichiarazione apparentemente semplice, ma densa di significato ideologico. L’affermazione sottintende che la malattia “toglie” dignità. Ne consegue, logicamente, che vivere in certe condizioni significherebbe essere privi di dignità. Ma è davvero così? Per rispondere, ritengo utile chiarire il significato del termine dignità. Un contributo prezioso in tal senso viene da un articolo di Maria Cristina Torchia pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca, massimo organo italiano di riferimento linguistico. Torchia spiega come dignità sia un termine semanticamente complesso. Condividendo la radice dec- del verbo latino decēre (“essere conforme, adeguato, confacente”), il termine degno assume innanzitutto un significato neutro: ciò che è adatto o adeguato, in positivo (degno di plauso) o in negativo (degno di biasimo). In un secondo senso, più profondo, dignità ha un significato assoluto e positivo: indica valore intrinseco, eccellenza, meritevolezza. Qualcosa o qualcuno che “merita stima, suscita rispetto”. In questo senso, la dignità è intimamente legata all’essere. Chi ricopre una carica – ad esempio la dignità cardinalizia – partecipa di questo valore. Per estensione, ogni essere umano detiene una dignità ontologica: possiede valore per il solo fatto di esistere in quanto essere umano. Questo è il fondamento della dignità universale, riconosciuta tanto dalla sensibilità religiosa (l’uomo come immagine di Dio), quanto da quella filosofica (l’uomo come animale razionale, al vertice della natura, come nell’etica kantiana). È proprio a questa concezione che si richiama la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, redatta all’indomani degli orrori del nazismo, per affermare un principio non negoziabile: la dignità appartiene a ogni essere umano, in modo inalienabile. Ma c’è anche un terzo significato, che affonda nella stessa radice etimologica: dignità può indicare un valore acquisito attraverso comportamenti che si conformano a certi principi. È la dignità come frutto di coerenza, merito, responsabilità. In questo senso, si “conquista” dignità agendo in modo degno della propria umanità o del proprio ruolo. Riassumendo, possiamo dire che la dignità è: Ontologica, cioè posseduta da ogni essere umano per il solo fatto di esistere; Etica, cioè riflesso dei comportamenti coerenti con la propria umanità o con i valori condivisi. Torniamo allora alla frase iniziale: “la malattia le ha tolto la dignità”. Questa affermazione si rivela problematica. Se si intende la dignità ontologica, essa non può essere tolta da una malattia: sarebbe come dire che l’essere umano malato perde il suo stesso valore intrinseco. È un’idea inaccettabile sul piano etico, giuridico e antropologico. Se invece si intende la dignità etica, l’affermazione resta illogica: la dignità morale si può perdere solo attraverso le proprie azioni, non per effetto di circostanze esterne. Una malattia non può mai essere causa di “indegnità”. Al massimo, è una prova, un limite, una sofferenza. Ma non un disonore. C’è, infine, una terza possibilità implicita nella frase: accettare che la malattia possa davvero privare l’essere umano della sua dignità ontologica. Ma ciò significherebbe ammettere che esistano vite umane senza valore, senza dignità. È una tesi gravissima, che contraddice apertamente tanto la nostra Costituzione (art. 3), quanto il diritto internazionale dei diritti umani. Portata alle estreme conseguenze, questa visione conduce a un paradosso: se la dipendenza da cure, da affetto, da aiuto, fosse umiliante o “indegna”, allora anche l’essere accuditi, nutriti, lavati – cioè amati – sarebbe fonte di indegnità. Ne deriverebbe che anche i neonati, i bambini o chiunque sia fragile non possiedano piena dignità. Quando poi si dice che la donna “ha riconquistato la sua dignità” lottando per ottenere il suicidio assistito, si propone un’idea tragicamente rovesciata: quella secondo cui, per essere degni, si debba negare la propria dignità ontologica. È come dire che il valore dell’essere umano consista nel rifiutare se stesso, nel rivendicare il diritto a cessare di essere. Una tesi tanto contraddittoria quanto inquietante, che si regge su un uso emotivo e scorretto del linguaggio. E che, sotto la superficie retorica, veicola un messaggio profondamente disumanizzante (Foto: Imagoeconomica) ABBONATI ORA ALLA RIVISTA!

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