L’uccisione di Charlie Kirk, 31 anni, cristiano, conservatore, pro family e pro life, un amico e sostenitore del presidente Donald Trump, dovrebbe scuotere per tanti motivi. Intanto per dov’è avvenuta: nel campus di Utah Valley, dove Kirk – nel corso del suo Prove me wrong, «provatemi che sbaglio», in cui dava dialetticamente battaglia sui temi etici e valoriali – semplicemente parlava a dei giovani. Dunque, secondo motivo che rende sconvolgente l’accaduto, è stato assassinato un giovane uomo che faceva del confronto, per quanto acceso (non quindi dell’indottrinamento o del monologo), una missione.
Dunque, anche se per i parametri della cultura dominante ciò è dura da ammettere, ad essere stato eliminato a colpi di pistola (con l'attentatore ancora da individuare) è stato un uomo del dialogo: virile e deciso, certo - non sussurrato e miagolante -, ma del dialogo. In terzo luogo, di questa tristissima vicenda colpisce come viene presentata, con diversi media anche italiani stanno etichettando come «attivista di destra» o di «estrema di destra» il povero Kirk. Potevano scrivere «conservatore», e non avrebbero sbagliato; potevano scrivere «cristiano», e neppure in quel caso, anzi, avrebbero sbagliato. Invece quest’insistenza sulla «destra», anche «estrema», è una scelta giornalistica ben precisa.
Una scelta che, se formalmente nulla toglie al dramma di Kirk, comunque – sia pure sottilmente, molto sottilmente – lascia intendere che ad essere stato ucciso sia stato un estremista, uno che sì, insomma, quasi che se l’era cercata. Anche se non aveva mai fatto del male a nessuno; anche se i suoi interventi erano incentrati sul confronto (è stato ferito mortalmente al collo mentre rispondeva a delle domande, cosa che neppure molti politici oggi vogliono o sanno fare); anche se il primo momento dovrebbe essere quello del dolore e non dell’ennesima volgare etichettatura politica.
Ed è proprio quest’ultimo, in definitiva, il punto: l’etichettatura e, in definitiva, la conseguente violenza politica. Quella violenza che, negli anni di piombo, l’Italia ha conosciuto fin troppo bene ma che ultimamente colpisce politici o attivisti conservatori, come provano tutta una serie di attentati e aggressioni: da quello a Donald Trump (2024) a quello di Robert Fico (2024) fino a quello di Jair Bolsonaro (2018). Volendo, si potrebbe persino ricordare quando fu lanciata a Silvio Berlusconi in faccia una riproduzione del Duomo di Milano, che lo lasciò sanguinante con vari denti rotti (2009), e il quadro appare purtroppo chiaro.
C’è stata, e non va assolutamente dimenticata, pure l’uccisione della deputata laburista Jo Cox (2016), ma mentre per quest’ultima gli omaggi non sono mancati (anche in Italia alla politica britannica è stata intitolata una Commissione), per tutti gli altri casi, invece, se non si è arrivati a giustificare (l'attentatore di Fico fu persino presentato come «poeta»...), spesso, si è lasciato quasi correre. O forse, anche nel nostro Paese, si saprà celebrare la memoria di Charlie Kirk, la cui fine ha comprensibilmente indignato ed addolorato anche Joe Biden? Staremo a vedere. Perché il tempo della violenza da una parte solennemente condannata e, dall’altra, quasi tollerata, come dire, avrebbe anche stancato, decisamente stancato. «Provatemi che sbaglio» (foto: Ansa).
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