Adesso il «ta-ra-ra» che rantola, addirittura per un quarto del brano, come uscisse dall’organetto surreale che lei suona nel videoclip di The Memory Remains, brano del 1997 dei Metallica (comunque più “umanisti”, e umani, di quanto si sarebbe portati a pensare), sembra davvero un testamento. Il pugno di mosche che resta quando l’addetto alle pulizie smorza le ultime luci del palcoscenico, la gloria passata (a chiedersi se fu vera gloria), il senso della vacuità che non conosce la redenzione della nostalgia da cui viene invece benedetta la Grizabella di Cats, che Andrew Lloyd Webber ha tratto dal talento di T.S. Eliot (1888-1965). Tutto questo c’è in quella canzone dei Metallica, che affresca con durezza e struggimento il viale del tramonto di una star, cioè di ogni persona smarritasi credendo di essere e di dover essere soltanto un ruolo, e il cammeo performatovi da Marianne Faithfull (1946-2025), morta 78enne il 30 gennaio, ne è chiosa perfetta.
Dal panettiere i cliché su di lei sono andati esauriti subito. «Emblema della Swinging London», «musa dei Rolling Stones» e via campionando dal web gli stereotipi che coprono l’abisso del nulla da dire, ma niente che renda davvero la fatta del personaggio, e nemmeno il dramma. Perché, anzitutto, chi la ricordava più quella donna indiscutibilmente bella, che protagonista non lo è stata mai davvero di alcunché, ma che definirla solo la comparsa di una scena in una rappresentazione certamente più grande di lei sarebbe oltremodo ingeneroso?
La Faithfull ha infatti soprattutto presenziato, anche quando non la si vedeva. C’era, seppur non vista. Dove? Ha aleggiato sopra tutta la stagione sulfurea e glamour degli anni 1960, quelli fatti della prima politicizzazione dei giovani e della musica soi-disant impegnata, della rottura degli schemi e dell’ordine, di quell’hard prima impensabile che allora furono le minigonne e degli anticoncezionali da banco, delle droghe micidiali e del loro imbellettamento correo con il nome di “cultura psichedelica” che gli intellò (nati proprio allora) coniarono onde poter smerciare tutto disinvoltamente alla luce del Sole.
Gli incubi della Beat Generation
Discendeva da Leopold von Sacher-Masoch (1836-1895), ma certo nessuno può scegliersi gli antenati. Quel che invece si sceglie a ogni istante è cosa fare di quel poco tempo che ci viene concesso. Marianne, illuminata dallo scrittore William S. Burroughs (1914-1997), che aveva ingrassato il mito mortale della Beat Generation a dosi massicce di iniezioni ipodermiche, maturò la decisione di diventare eroinomane militante.
Iniziò dai sottoscala dell’Inghilterra di allora. S’imbatté nei Rolling Stones della prima metà dei Sixties, la band il cui emblema è da sempre lo sberleffo, ma che allora erano ancora uno dei tanti gruppi che si accalcavano su una scena sin troppo affollata. I Rolling Stones avrebbero infatti bucato lo schermo solo dopo avere incontrato un’altra donna, Anita Pallenberg (1942-2017), compagna anzitutto di Brian Jones (1942-1969), il primo leader del quintetto rock-blues, annegato a 27 anni colmo di droghe e alcool sul fondo di una piscina, quindi del chitarrista Keith Richards. Chiodo fisso della Pallenberg era l’occultismo, a cui era stata introdotta dal regista e scrittore Kenneth Anger (1927-2023). In realtà, il vero cognome di costui era Wilbur Anglemyer, ma lo pseudonimo «anger», «collera», marcava meglio il ruolo da vate maledetto dell’Underground che questo personaggio si era scelto, finendo per assomigliare, nelle ultime foto scattate in vita, a una statua da M.me Tussaud di un vampiro coi merletti uscito dalle pagine romantiche di John Polidori (1795-1821).
Marianne e Anita si frequentavano, viaggiavano assieme. Per un tempo la prima, appena diventata madre, abitò in quella casa che la seconda divideva con Jones. Fu a quel tempo che iniziò con le droghe. Come l’amica Anita, fece anche lei il giro dei Rolling Stones, accompagnandosi prima a Jones, poi a Richards e alla fine a Mick Jagger, l’immarcescibile cantante che a 81 anni zampetta ancora come un grillo sui palcoscenici del mondo portando in tournée il proprio volto scavato che a tratti pare un teschio vivente. Anita e Marianne erano però bisessuali (di fatto questo era un must della Beat Generation), e si scambiarono non solo convenevoli, non solo droghe.
Scritturata da manager i cui criteri di scelta farebbero infuriare le femministe nemiche della donna-oggetto, ma non se si tratta dei mostri sacri della contro-cultura, la Faithfull prestò la voce a qualche canzone oramai dimenticata dal tempo. Epperò il suo apporto artistico più significativo sono le parole stralunate e insulse del brano Sister Morphine, scritto con Jagger sul finire degli anni 1960 e inserito nell’album Sticky Fingers pubblicato dai Rolling Stones nel 1971, «Dita appiccicose», quello la cui copertina sono dei jeans maschili all’altezza di una cerniera che nelle versioni de luxe si poteva calare come fosse vera.
La dea della distruzione
Si dice che la presenza della Faithfull negli Stones sia sensibile anche in un altro loro brano arcinoto, il precedente Sympathy for the Devil, del 1968, ma altri dicono che invece il valore aggiunto qui sia della “strega” Pallenberg. Probabilmente sono vere entrambe le cose. Comunque sia, quel brano sinistro dice la verità: sottolinea che il diavolo era lì quando Gesù morì in croce e pure quando i bolscevichi sterminarono la famiglia Romanov nel 1917, allorché la granduchessa «Anastasia urlò invano». Del resto, è noto: il diavolo conosce la verità, solo che si rifiuta di servirla.
Comunque in Witches’ Song, «La canzone delle streghe», inserita nel suo disco solista Broken English del 1979, la Faithfull mette in scena un rituale oscuro, forse un sabba. Chissà se c’entra l’avere interpretato sullo schermo il personaggio di Lilith, il demone femminile della mitologia mesopotamica legato a tempeste e sconvolgimenti che nella letteratura rabbinica viene collegato a stregoneria, lussuria e adulterio. Marianne ne prese i panni, reinterpretandola come dea della distruzione, in Lucifer Rising, film del citato Anger, oltretutto collezionista tra il seriale e il morboso di miserie e scandali dello spettacolo, veri, presunti e forzati, messi nero su bianco nel famoso Hollywood Babylon, del 1959, tradotto in italiano da Adelphi nel 1979 e seguito da Hollywood Babylon II nel 1984. Lucifer Rising sono solo 29 minuti di pellicola che però per essere girati (anche in luoghi un tempo adibiti a culti pagani, alcuni cari al Reich nazionalsocialista) e poi montati richiesero anni, fino al 1972, per poi essere distribuiti solo nel 1980. Anger si vanta di essere stato influenzato fortemente dal mago inglese Aleister Crowley (1875-1947) e, non fosse stato per un litigio all’ultimo momento, Lucifer Rising avrebbe goduto della colonna sonora di Jimmy Page, il talentuoso chitarrista del gruppo inglese Led Zeppelin, gran collezionista di cimeli crowleyani, fra cui la Boleskine House, già dimora del mago sulle rive del Loch Ness, in Scozia. Anger e Page progettarono la collaborazione cinematografica poi sfumata proprio lì.
Degli altri ruoli da attrice della Faithfull si ricordano più soltanto le enciclopedie. Qualcuno ancora ripete «formidabili quegli anni». Ripetere invece una preghiera per Marianne Faithfull ora non è cosa di poco conto.
(Foto Marianne Faithfull - Ansa)