«Il vertice improvvisato fra otto Paesi atlantici convocato a Parigi da Macron è insieme sintomo di disperazione e primo pallido segnale di un tentativo di riscossa dei vedovi della vecchia Nato, depotenziata da Trump e Putin». Nella fotografia che Lucio Caracciolo stamane, in prima pagina su
Repubblica, ha scattato sul vertice parigino di ieri traspare molto del clima di assoluta confusione che regna in questo momento in Europa, dove l’evoluzione dello scenario in Ucraina – determinata dal riavvicinamento tra Casa Bianca e Cremlino – sta mettendo le cancellerie del nostro Continente davanti, se non alla loro irrilevanza, certamente ad una fase di crisi.
La stessa scelta del presidente Macron di convocare «d’urgenza» solo alcuni rappresentanti europei – estendendo, al tempo stesso, l’invito a quella Gran Bretagna che dall’Unione europea ha voluto andarsene – la dice lunga sul grado di caos che domina tra quegli stessi Paesi che, in teoria, dovrebbero fare la voce forte verso Washington e Mosca, mentre in pratica sollevano forse un sussurrio. Se non è un clamoroso
boomerang, ecco, gli somiglia molto. Del resto, gli esiti di questo «
vertice improvvisato» a Parigi sono – a conti fatti - un mezzo passo avanti ed un altro indietro: un accordo sull’aumento delle spese militari e una spaccatura sulla missione militare di
peacekeeping in Ucraina.
Più precisamente, ciò che è emerso nel vertice di Macron – più desideroso di ritagliarsi un ruolo di regista della politica europea, che provvisto di effettivi mezzi per farlo – è che, a fronte dell’accelerazione del disimpegno americano sul Continente, sugli otto Paesi convocati a Parigi ben quattro, la metà esatta, sono contrari: la Polonia (con Tusk che a Parigi ha cercato di stemperare la tensione europea con Washington), la Germania (per Scholz il dibattito sulle truppe è «
inappropriato»), la Spagna (la missione militare «
è un discorso prematuro» per Sánchez) e l’Italia, con il premier Giorgia Meloni che ha sostenuto che l'ipotesi di un dispiegamento di truppe sarebbe «
la più complessa e forse la meno efficace».
Ecco come Anais Ginori, corrispondente sempre di Repubblica – testata che può essere tacciata di tante cose, ma non certo di essere ferocemente euroscettica -, sintetizza il vertice svoltosi ieri: «
Nella riunione all’Eliseo c’è tensione, ma forse ancora di più sconcerto. Disorientamento. Per la prima volta dal 1941 l’Europa si sente sola […]
Il vertice si conclude in bilico. Da una parte, il passo avanti sulla clausola di salvaguardia per le spese militari e l’apertura sui defence bond. Dall’altra, una spaccatura su una possibile forza di interposizione in Ucraina. Una spaccatura che sarà difficile ricomporre in tempi rapidi».
Ora, staremo a vedere quali sviluppi avrà la situazione, ma la netta sensazione, per ora, è che a Parigi si sia celebrato un paradosso: un vertice che doveva unire ha diviso, un incontro che doveva conferire comune autorevolezza ha restituito comuni perplessità, lasciando il campo definitivamente libero agli Stati Uniti e alla Russia (i cui colloqui, per l'appunto,
sono da poco iniziati a Riad) di stabilire i loro accordi, per quanto Donald Trump continui – probabilmente più per ragioni di forma che di sostanza – a rassicurare quel Volodymyr Zelensky, cui suo figlio, Trump jr, dopo il 5 novembre aveva subito promesso che avrebbe «
perso la paghetta», che in qualche modo «
sarà coinvolto» nei processi di pace.
Sarà che l’Unione europea, in fondo, è una «fondazione americana» (copyright Lucio Caracciolo), eppure fa impressione vedere, se non uno sgretolamento, certamente la paralisi di un’Ue della quale la Commissione guidata da Ursula von der Leyen – tenuta assieme più da residuo orgoglio che dai numeri -, rappresenta oggi perfettamente la condizione. Possiamo quindi ritenere questa fase l’inizio della fine dell’Ue? Per quanto sia ormai indubbio che all’Europa fare per anni da ancella all’amministrazione di Joe Biden non abbia portato bene, è ancora presto per dirlo; certamente, come evidenzia la copertina del
Timone di febbraio, è iniziata una fase nuova per l'Occidente, cui prima l’elezione di Trump e poi la sonorissima tirata d’orecchi a Monaco del suo vice, Vance - «
un capovolgimento del mondo» (copyright Romano Prodi), col presidente della conferenza, Christoph Heusgen, scoppiato letteralmente
in lacrime sul palco -, hanno dato il là.
In questo senso fanno sorridere, e anche un po’ tenerezza, appelli come quelli sottoscritti da Enrico Letta secondo cui ora «Trump deve essere fermato», per il semplice motivo che è troppo tardi: come può un’Europa claudicante fermare l’inquilino della Casa Bianca, che peraltro adesso ha dalla sua sondaggi pure più confortanti di quelli che ebbe all’inizio del suo primo mandato? Sogna, ragazzo sogna - verrebbe da rispondere, citando un grande cantautore che di certo Letta apprezza. Ma se la «
fondazione americana» entrasse davvero in una crisi profonda, più che delle velleità di Macron o della Von der Leyen – e dello scossone inflitto dagli Stati Uniti -, essa sarebbe in primo luogo l’esito inevitabile di un’Europa politicamente senz’anima e che ha rifiutato le sue radici cristiane.
Così forse solo oggi si coglie fino in fondo quanto la storica umiliazione a suo tempo inflitta a Giovanni Paolo II e alla Chiesa – rispetto, appunto, al mancato richiamo alle radici cristiane nei documenti europei – non fosse un dispetto europeo alla religione ma all’Europa stessa. Nessuno ci pensa più, ma quei fatti di ormai 20 anni fa furono la spia di una crisi grave, di cui abbiamo scritto anche
sulle pagine del nostro mensile (
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Fonte: Imagoeconomica)
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