Mercoledì 03 Dicembre 2025

BIOETICA

Il “Cappato svizzero” si toglie la vita a 93 anni in una delle sue cliniche

Ludwig Minelli, fondatore di Dignitas, dopo aver incoraggiato migliaia di persone a uccidersi, in nome dell’autodeterminazione ha fatto lo stesso, ma la sua macchina di morte continua a vivere.

Il “Cappato svizzero” si toglie la vita a 93 anni in una delle sue cliniche

Ludwig Minelli (Ansa)

Potrebbe essere ribattezzato il “Marco Cappato svizzero”. La sua battaglia è stata trasformare il suicidio in una rivendicazione di libertà, la morte procurata in un atto di dignità. La sua è stata una vita spesa a sovvertire la realtà e a incoraggiare chi soffriva a togliersi di mezzo, con quella fredda sobrietà svizzera rivestita di progresso. E sabato scorso si è ucciso lui stesso, a pochi giorni dal suo 93° compleanno, rivendicando ancora una volta la sua scelta di “autodeterminazione”. Del resto, predicare bene e morire di conseguenza è il minimo sindacale.

È Ludwig Amadeus Minelli, fondatore di Dignitas: il regno svizzero del suicidio assistito, la destinazione mortifera dove da tutta Europa si arriva per dire addio a questo mondo, persino convinti che sia un gesto di emancipazione. Nato nel 1932 a Zurigo, giornalista e corrispondente per il tedesco Der Spiegel, passa poi alla giurisprudenza specializzandosi in diritti umani. All’inizio degli anni ’90 entra in EXIT, realtà nata per promuovere l’autodeterminazione fino al fine vita. Ma per Minelli EXIT è troppo restrittiva: solo cittadini svizzeri e solo malati terminali. Troppa prudenza, evidentemente. Così, nel 1998, fonda Dignitas, con l’obiettivo dichiarato di estendere l’accesso alla morte assistita anche a chi soffre di patologie croniche o condizioni dolorose non terminali. D’altra parte anche il suicidio deve essere inclusivo.

Minelli diventa lo specialista dell’ultimo gesto: oltre quattromila persone sono morte con Dignitas dal 1998 a oggi, una ogni due giorni, da ventisette anni. Nel comunicato che annuncia la sua morte, l’organizzazione lo celebra come “un pioniere e un combattente”, un uomo che ha dedicato la vita a cercare nuove vie per esercitare “la libertà di scelta e l’autodeterminazione nel fine vita”. Un innovatore della morte, insomma: Steve Jobs, ma con la tiopentale al posto dell’iPhone.

Tra le sue battaglie più celebri, quelle davanti alla Corte suprema svizzera e alla Corte europea dei diritti dell'uomo: nel 2011 ottiene una sentenza che riconosce il diritto di una persona capace di intendere e volere di decidere tempi e modalità della propria morte. Una vittoria che alimenta critiche e accuse: prima tra tutte quella di speculazione, ossia di avere spinto persone anche perfettamente sane a togliersi la vita. Accuse respinte con la stessa fermezza con cui si respingerebbe un fastidioso problema amministrativo: “lavoro”, lo definiva.

E così, con la stessa coerenza glaciale, pianifica la propria morte, ampliando prima il consiglio di amministrazione affinché la sua “macchina della morte” sopravvivesse al suo ideatore e continuasse a funzionare con Svizzera precisione. La sua scomparsa arriva mentre in Europa il dibattito sul “suicidio assistito” si fa sempre più caldo, accompagnato dalla nenia “un cittadino non deve essere costretto ad andare in Svizzera a morire”. Come dire: sì, certo, quello è il modello di libertà e dignità. Proprio in queste settimane il Regno Unito prepara una legge destinata a superare il Suicide Act del 1961, mentre in Germania la Corte costituzionale — che già nel 2020 ha riconosciuto un diritto all’autodeterminazione nel morire — apre alla possibilità di ricevere aiuto da terzi per attuare il proprio proposito suicidario.

E anche da noi la direzione è quella: mascherata dai soliti “casi eccezionali” avanza una legge che punta dritta allo stesso traguardo. Con un dettaglio che nessuno vuole dire ad alta voce: quando la morte diventa un diritto, finisce per diventare anche un dovere. Che se soffri e sei un peso dovresti pensarci da solo a toglierti di mezzo. E a rimetterci, alla fine, non è solo chi muore. È ciò che resta della nostra idea di civiltà.

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