Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Queste le altre puntate: QUI, QUI, QUI e QUI
Tra campi coltivati, immersa in un borgo antico, svetta maestosa la torre nolare dell’abbazia di Chiaravalle, chiamata confidenzialmente in dialetto meneghino la Ciribiciaccola. Se si entra nel solenne edificio di culto si rimane stupiti dall’ingegno dell’uomo e dalla sua capacità di generare bellezza. Nel monastero adiacente è fissato un colloquio con il monaco padre Giuseppe Busato, classe 1932, che dopo essere stato tra le file dei Padri del PIME, dal 2007 ha deciso di aderire alla regola cisterciense. È la seconda volta che mi reco alla periferia sudorientale della metropoli lombarda per strappare una testimonianza al religioso. Il suo confessionale – una stanzetta disadorna appena dentro le mura della badia – è un viavai continuo di penitenti a cui è dato appuntamento allo stesso orario. Instancabile nell’ascoltare in nomine Domini, l’anziano confessore è sempre sorridente e pronto nel dire una buona parola. Sa di essere – e lo vuole – dietro le quinte, in un nascondimento capace di operare per conto di Colui che tutto può.
Appena mi accorgo che il momento è propizio, riesco a intavolare un discorso, sebbene padre Giuseppe rimanga schivo e vago rispetto al mio tentativo d’indagare sul suo passato non poco avventuroso, ricco di esperienze che potrebbero essere lette in un libro del meticoloso Jules Verne o dello sfortunato Emilio Salgari. Scopro, per esempio, di quando rimase illeso dopo un morso di un serpente velenoso o dell’incontro con un giaguaro, che finì per fuggire forse per paura dell’impietrito missionario ora dinanzi a me. Mi trovo, difatti, al cospetto di un uomo che si è speso per i più poveri tra i poveri della regione dell’Amapá in Brasile, ed è stato uno dei collaboratori ancora viventi del Venerabile dottor Candia, come ho messo per iscritto nel mio volume Marcello Candia. Imprenditore per conto di Dio (Àncora Editrice, 2023).
«Era un tesoro, Marcello!», ha ribadito con un misto di dolcezza e nostalgia nel corso del dialogo, perché fu Candia a pagare i suoi studi alla Scuola di Medicina che gli permisero di operare a Macapá, vivendo insieme per un lungo periodo: «Lui si occupava dell’ospedale, mentre io mi dedicavo alla costruzione di una radio e di una emittente televisiva in chiave missionaria. Viaggiavo, inoltre, in gran parte dell’Amazzonia, cercando di visitare le cappelle o le chiese… più di trecento! Ovunque andassi, oltre a svolgere il servizio sacerdotale, facevo il medico e mi ingegnavo in tutto a seconda delle esigenze in cui mi imbattevo».
La conferma del suo darsi è dedotta dalla risposta al mio chiedere conto sul suo stato attuale di salute, che fa comprendere come anch’egli abbia vissuto nella piena dedizione al prossimo: «Sto bene, ho le gambe che non mi reggono tanto. Del resto, quando ero in Brasile ho fatto anche il manovale, ho costruito molte chiese, una dozzina di cappelle e una settantina di case per i poveri. Quel lavoro di trent’anni fa mi ha rovinato le ginocchia e adesso sento le conseguenze. Vorrebbero operarmi, ma quando studiavo medicina mi dicevano: “Poche operazioni chirurgiche e poche medicine, così si vive di più!”. Io cerco di tenere duro!». Non soltanto il lavoro manuale e pratico, ma anche l’attenzione all’apostolato, tanto che tra le risa contagiose confessa: «Battezzavo tutti, non erano più rimasti protestanti nell’Amapá!».
Nella sua movimentata esistenza, padre Giuseppe si è sottratto al pericolo in più occasioni, e non solo sfuggendo alle fauci di bestie feroci: «Pilotavo – avevo diciannove preti con me su un bimotore – e un uragano ci buttava giù. A un certo punto non ce l’ho fatta più nello sforzo di mantenere la rotta e ho detto al mio copilota: “Aiutami!”. Ha spento i motori e il velivolo si è lasciato trasportare dalle correnti e l’abbiamo scampata!». In un’altra circostanza la sventura è diventata provvida per la sua vocazione, quasi una chiamata nella chiamata: «Stavamo affondando mentre ero al timone di un barcone, perché è arrivata contro di noi la violenza dell’acqua proveniente dall’oceano che si spingeva contro la foce del Rio delle Amazzoni. Mentre stavamo affondando, mi son detto: “Sono perduto!”. Alzai lo sguardo al cielo e vidi una mano che per tre volte mi faceva segno di cambiare direzione. Senza pensarci l’ho fatto e ci siamo salvati. Questa mano l’ho rivista identica: è quella di un ritratto di san Bernardo qui conservato e ho capito che avrei dovuto rifugiarmi a Chiaravalle».
Invero, dei contatti con il monastero claravallense erano intercorsi quando ancora abitava in terra brasiliana: «Siccome avevo portato dei ragazzi in questa abbazia per diventare monaci e avevo quattro sorelle monache di clausura della stessa congregazione, mi sono fatto cisterciense. Mi hanno accolto a braccia aperte e, quindi, invece di andare in pensione da qualche altra parte, ho deciso di vivere da monaco tra i monaci. Questa è la mia semplice vita».
In realtà, a chi ascolta rapito il vecchio religioso la sua esistenza non appare per niente così, anche se ora è scandita dal ritmo benedettino di ora et labora et lege, tutta spesa nella preghiera, ma anche nella direzione delle anime. Nel segreto del confessionale ogni presbitero sperimenta il mistero del male e insieme quello della misericordia divina che consente di non perdere mai la speranza, nonostante le ingiustizie. La medaglia al merito sul campo padre Busato l’ha ricevuta quando una prostituta da lui assolta e ormai emendata aveva convertito un suo ex cliente, il quale si era poi accostato al sacramento della Penitenza, domandando proprio a un basito padre Giuseppe se fosse lui il prete che mandava le persone in Paradiso. Nondimeno, la strada della redenzione è lastricata di croci e di spine per chiunque e il vegliardo seduto hic et nunc di fronte a me non è estraneo al dolore e all’incomprensione, esattamente com’era già capitato a Candia, che viene rievocato: «Lui era un puro», afferma risoluto il religioso.
Proprio a riguardo della purezza, il missionario spiega che quando in Brasile aveva istituzionalizzato una Santa Messa settimanale per le prostitute, richiamandone ben più di duecento, aveva infastidito i potenti di turno che sfruttavano quelle donne, e questo fu uno dei motivi non ufficiali del suo ritorno in Italia: «Sono cose delicate – ammette –, io le ho scritte in un libro, ma sono avvenimenti troppo intimi per divulgarli con superficialità». Ci fu addirittura un’azione giudiziaria promossa dalla Polizia Federale con sede a Brasilia che ufficialmente riguardava le emittenti radiotelevisive gestite dal missionario: «Questa non riteneva valida e sufficiente l’autorizzazione rilasciata dallo Stato di Amapá – egli precisa – e pretendeva quella Federale. Così, pose il sigillo alle apparecchiature».
L’opera di evangelizzazione aveva reso perspicace la sua capacità di comunicazione: le trasmissioni radiofoniche che aveva messo in piedi gli consentirono un’esperienza che lo segnerà nel profondo: «Parlavo alla radio di Padre Pio e ho anche scritto su di lui, ma non lo conoscevo di persona. Mi sono dunque deciso, e ho fatto un viaggio per andare a confessarmi da lui. Ho dovuto aspettare due o tre giorni per entrare nella fila: poi ho potuto incontrarlo». E qui il nostro discorrere prende un’improvvisa impennata, elevandosi su di un piano soprannaturale: «Ho ottenuto un miracolo dal Santo di Pietrelcina quando una signora che aveva avuto dei soldi da me per costruire una cappella si era ammalata gravemente, e ho ragionato: “Addio soldi, addio cappella!”. Un giorno sono andato a trovarla e le ho detto: “Ti benedico con la mano destra di Padre Pio!”. Guarita all’istante! Il medico che immaginava l’imminente morte, la interrogò sulla sua salute: “Ho sentito due mani, una fredda e una calda, ho cominciato a respirare, e sono stata bene”. Guarita!». Con un sorriso sornione, il monaco dal saio bianco con lo scapolare nero aggiunge: «La cappella poi l’ha costruita! Padre Pio è potente».
Il Signore davvero non abbandona, e dopo anni di fatiche in terra straniera per padre Giuseppe si aprono le porte del monastero per gustare la quiete e la pace del chiostro. La serenità è riflessa nel dialogo che si sposta di nuovo sulla collaborazione avuta con il dottor Candia: «Lui veniva con me a vedere i luoghi dove lavoravo, ma ultimamente si stancava facilmente. Io avevo molte più forze perché ero più giovane di lui. Ciononostante, seguitava a venire! Quando parlava la gente rimaneva a bocca aperta, perché lo faceva senza sosta e affascinava! Le persone, inoltre, sapevano che era ricchissimo, addirittura dicevano che era il più ricco del Brasile. E lui? Lui si faceva povero, lui amava i poveri, aiutava chiunque: la sua forza era stata proprio questa carità. Il perpetuo soccorrere. Si prodigava per tutti. Per esempio, in un rione tra i più miseri di Macapá era attento ad assistere i più indigenti, oppure, se nelle scuole c’erano professori che non riuscivano a ricevere il salario, lui dava di suo. Dava sempre: non so dove trovasse i soldi, perché ne elargiva continuamente, né mi interessava molto, però sapevo che potevo contare sul suo aiuto». Se era stanco nel corpo, lo spirito di Marcello era giovane, sebbene la sofferenza fisica fosse stata una costante soprattutto nella parte finale della sua esistenza. Padre Giuseppe accenna a quel periodo in cui il cuore di Candia aveva iniziato a fare le bizze: «Quando si era ammalato e dopo che si era ristabilito, mi recavo volentieri da lui per fargli compagnia».
Mi rendo conto che il tempo è passato inesorabile, e mi pare di sentire il desiderio delle persone accalcate fuori da quella piccola stanza di rivolgere due parole al religioso nonagenario. Prima di congedarci, l’ultimo pensiero è ancora rivolto al Venerabile Marcello Candia: «Veramente era un tesoro… non so proprio il perché non lo abbiano fatto ancora santo!».
Esco da quello stanzino ricolmo di una gioia impalpabile, mentre risuona ancora in me quanto mi è stato testimoniato dal missionario in terra brasileira oramai monaco figlio di Clairvaux, il quale non ha avuto paura di consumare tutto se stesso per sollevare il prossimo – presente in qualsiasi longitudine – dalle sue povertà materiali e spirituali.
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