C’è chi lo aveva detto. «La destra religiosa diventerà globale», avvisava infatti ancora nel novembre 2015 Neil J. Young, intellettuale che può vantare collaborazioni editoriali di primo piano, dal Washington Post al New York Times. Ora, non sappiamo se un domani sarà davvero «globale», ma certamente la svolta conservatrice della Chiesa cattolica oggi risulta ben visibile negli Stati Uniti. Tanto che anche una delle principali agenzie di stampa internazionale, l’Associated Press, il 1° maggio ha dedicato al fenomeno un lunghissimo servizio, firmato da Tim Sullivan e Jessie Wardarski.
Assai eloquente è già il titolo dell’inchiesta – Un passo indietro nel tempo – con la quale i due giornalisti hanno registrato quello che loro stessi hanno definito «un grande cambiamento». Il cambiamento in questione è essenzialmente uno, e riguarda il clero. «I preti progressisti che hanno dominato la Chiesa statunitense negli anni successivi al Concilio Vaticano II», scrive l’Associated Press, «ora hanno tra i 70 e gli 80 anni. Molti sono in pensione. Alcuni sono morti. I preti più giovani, mostrano i sondaggi, sono molto più conservatori». «È stato come un fare un passo indietro nel tempo», è il commento d’un parrocchiano sconvolto dal nuovo corso in atto.
In effetti, la vecchia guardia progressista sembra non gradire molto il «grande cambiamento». I sacerdoti dai 70 anni in su che l’agenzia di stampa ha avvicinato sembrano delusi, se non arrabbiati. «Dicono che stanno cercando di restaurare ciò che noi abbiamo rovinato», è per esempio il commento amaro di un reverendo di 87 anni, e da tempo in pensione, alla riscossa conservatrice – di preti e fedeli – che si sta consumando. «Stanno solo aspettando di seppellirci», gli ha fatto eco un altro sacerdote un po’ più giovane (72 anni), ma ormai quasi rassegnato alla piega imprevista che si sta verificando. E che però, ecco il punto che neppure l’Associated Press coglie appieno, era ampiamente pronosticabile.
È infatti da molto tempo che ci si è accorti come la “fede forte” (al contrario di quella progressista) tenda a resistere se non a crescere nella società. Una delle prime testimonianza di ciò fu Why Conservative Churches are Growing, libro del 1972 di Dean M. Kelley, sociologo e dirigente del Consiglio Nazionale della Chiese negli Stati Uniti il quale, con quel volume, con riferimento sempre al contesto americano notava un fenomeno politicamente, anzi ecclesialmente scorretto, ma sostenuto dai numeri: i tassi di crescita di denominazioni «conservatrici» – in particolare rispetto alle esigenze morali e all’affermazione di una identità forte – a scapito di analoghi, se non più forti tassi di decrescita delle denominazioni «progressiste», cioè inclini a quelle che in gergo giornalistico si chiamano oggi le «aperture».
Non appena uscito, il libro di Kelley sollevò un polverone. Il punto è che dati successivi hanno confermato quanto quel testo asseriva. Consultando le pagine dell’Yearbook of American and Canadian Churces, che per la statistica religiosa sono una garanzia, rispetto agli anni tra il 1962 e il 1992 si è difatti visto come negli Usa le congregazioni progressiste, per così dire, si siano ridotte fino al 50%, mentre le sigle più conservatrici abbiano conosciuto crescite, talvolta, superiori al 200%. Tutto ciò, inevitabilmente, non poteva che riguardare anche la Chiesa cattolica, che è proprio quanto si sta verificando in questi anni e che illustri sociologi hanno già ampiamente registrato.
Basti prendere Introducing the 2021 Survey of American Catholic Priests: Overview and Selected Findings, indagine condotta dal sociologo Mark Regnerus (che per le pagine del Timone ha scritto un’interessante analisi sulla famiglia e sull’importanza di padre e madre per i figli) da cui emerge che, se nel 2002 i preti che ritenevano i preti più giovani «molto più conservatori» erano il 29%, la stessa percentuale nel 2021 è balzata al 44%. Nel novembre dello scorso anno è poi stato un report della Catholic University of America di Washington a mettere in luce come, negli Stati Uniti, i preti progressisti siano «quasi scomparsi». In effetti, i numeri di quel rapporto erano e sono assai eloquenti.
La percentuale di sacerdoti identificati come “un po’ progressisti” o “molto progressisti” risulta difatti scesa – ma forse sarebbe meglio dire crollata – dal quasi 70% tra quelli ordinati nel 1965-1969 e a meno del 5% tra quelli ordinati nel 2020 o successivamente. «In parole povere, la porzione di nuovi sacerdoti che si considerano politicamente “liberali” o teologicamente “progressisti” è in costante calo, a partire dal Concilio Vaticano II e ora è quasi scomparsa», l’esatta conclusione di quella indagine, della quale l’inchiesta dell’Associated Press non costituisce ora che una ulteriore, tangibile conferma, con chiese, scuole e seminari conservatori che crescono in un’America che pure va secolarizzandosi.
Ora, tutto questo «grande cambiamento», va detto, anche in tanti settori mondo cattolico non è visto con favore. Tutt’altro. Viene però da chiedersi – anche vedendo quanto ortodossa sia anche la comunità cattolica in maggior crescita tra tutte, quella dell’Africa, raccontata sulle pagine del Timone di aprile – se questa “fede forte” altro non sia che un assaggio del futuro. D’altra parte, gli stessi indicatori demografici – che dicono come le famiglie più devote siano quelle più prolifiche – vanno in questa direzione. E i numeri, si sa, non mentono. Per questo, più che “forte” o “conservatrice” quella che si fa largo è forse semplicemente la Chiesa del futuro se non del presente. L’altra invece, per dirla con l’Associated Press, sarà presto «morta o in pensione» (Fonte foto: Pexels.com)
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