Paolo Borsellino è stato l’esempio di un magistrato leale innanzitutto con sé stesso, verso i suoi principi e la sua funzione. L’Italia non può disperdere il suo insegnamento
Nel contrasto alla criminalità mafiosa Giovanni Falcone è stato lo stratega, colui che ha per la prima volta centrato l’obiettivo di portare a giudizio - e a un giudizio definitivo di condanna - l’intera Cosa nostra siciliana; e successivamente, nel lavoro svolto al ministero della Giustizia, ha posto le basi per quell’architettura normativa e organizzativa che, con gli aggiustamenti intervenuti nel tempo, ma senza stravolgimenti, ha permesso allo Stato finalmente di ‘giocare all’attacco’ contro i clan e di metterne in ginocchio tanti.
In una ideale ripartizione di ruoli, Paolo Borsellino è stato il generale in campo, colui che ha condiviso fino in fondo il progetto di Falcone, e lo ha messo in opera, con la professionalità e la generosità che gli erano proprie. Non aveva un eloquio da trascinatore: più volte ho ascoltato qualche sua relazione in convegni; il suo parlare piano, con tono di voce basso, non faceva però ombra al peso e alla forza di ciò che trasmetteva.
«Dovevo ucciderlo io»
Per paradosso, ma lo è solo in apparenza, ne descrive bene il tratto umano e di magistrato chi inizialmente lo aveva conosciuto come nemico da abbattere. «Incontrai il dottor Borsellino», dichiarò il ‘pentito’ Vincenzo Calcara nel 1992, «il 3 dicembre 1991, ma soltanto il 6 gennaio di quest’anno gli dissi che ero uomo d’onore e gli dissi anche: "Dottore, io sono quella persona che avrebbe dovuto ucciderla, io avrei dovuto essere il killer". Mi guardò incerto poi mi chiese: "Ma dove mi avrebbe dovuto uccidere, a Palermo oppure a Marsala? Perché a Palermo è più facile". Gli dissi che il suo attentato sarebbe dovuto avvenire con un’autobomba. Rimase perplesso, poi mi disse: "Va bene Calcara, mettiamoci a lavorare". Da quel momento in poi iniziò un rapporto splendido: in lui vedevo il vero uomo d’onore, ma inteso come onore quello vero, non quello che credevo quando entrai in Cosa Nostra. Quando lo incontrai subito dopo la morte di Falcone, lo vidi demoralizzato ma mi disse: "Vincenzo, non ci arrendiamo, andiamo avanti, io e te siamo nella stessa barca e indietro non si torna". Gli dissi: "Ma signor giudice, lei non ha paura? Ora tocca a lei di sicuro", e lui mi rispose: "È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola» (Vincenzo Calcara, "Quel giudice dovevo ucciderlo io", intervista a cura di Guglielmo Sasinini, in Famiglia Cristiana, n. 32, Milano 5-8-1992)
Un vero uomo d’onore
Il 19 luglio 1992, a Palermo, la vita di Paolo Borsellino veniva stroncata con un’autobomba. Lasciamo ancora parlare il collaboratore di giustizia. «Calcara conserva un profondo ricordo di Borsellino. Dopo via D’Amelio non perde occasione per parlarne, invia alla famiglia del giudice lettere cariche di significato: "Mi ha trasmesso fin dall’inizio una grande forza interiore, ragione e sentimento avevano la stessa intensità. Sono a Favignana, recluso, voglio lasciare Cosa Nostra ma ho ancora mentalità e abitudini da mafioso: voglio collaborare con Borsellino ma penso che chi tradisce il giuramento di fedeltà alla mafia è un infame. "No, non sentirti traditore", fa lui. "Sono loro, che hanno rinnegato l’onore, loro gli infami". Aveva ragione: le parole della mafia nascondono solo una macchina di morte. Borsellino, lui sì, ha avuto onore: non ha rinunciato alle sue idee nemmeno quando gli avrebbero reso il cammino più difficile. Una volta gli dico che, secondo me, come giudice è troppo leale. Mi risponde che sa di molte persone legate alla mafia, ma non cerca mai di forzarne l’arresto. "Servono prove, riscontri, lo dice la legge", è la sua replica. Accompagnata subito da uno squarcio di ottimismo: "Impara a usare la virtù più difficile: la pazienza». (Vincenzo Calcara, ibidem).
È incredibile quanto alcuni termini possano assumere significati contrapposti: la criminalità mafiosa ha tentato per secoli di costruire un proprio onore, fatto di codici e di rituali. L’"onore di Borsellino”, come ha ben sottolineato Mario Cicala, che ne è stato collega e amico, è quello vero, rispettoso della dignità di ciascuno, e prima ancora coerente coi propri principi e con la propria funzione.
La strada degli eroi
Nella veglia per Giovanni Falcone, il 20 giugno 1992, in un giorno collocato esattamente a metà fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, Borsellino tenne un discorso sul suo fraterno amico, su sua moglie Francesca Morvillo e sugli agenti della scorta. Parlando di Falcone sembrò dire di sé stesso, e della consapevolezza del destino che lo attendeva: a parte quanto gli aveva riferito Calcara, altri segnali indicavano l’elevata probabilità di un attentato che avrebbe colpito lui. Ma non mostrò il minimo dubbio sul dovere di proseguire per la strada tracciata: «Sono morti tutti per noi - fu la conclusione di quel discorso -, e abbiamo un grosso debito verso di loro e questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera: facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici. Rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro), collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, anche nelle aule di giustizia, accettando in pieno queste gravose e bellissime verità: dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone È VIVO!».
Non ha torto Bertolt Brecht quando definisce «sventurata la terra che ha bisogno di eroi»: la presenza di tanti eroi nell’Italia del secondo dopoguerra, anche e soprattutto nel mondo della giustizia, è stato certamente indice di crisi. «La terra che ha bisogno di eroi» è «sventurata» perché rivela di non possedere in sé quelle energie morali indispensabili affinché ogni cittadino, adempiendo ai propri doveri, faccia sì che a nessuno si richiedano virtù eroiche.
Ma sarebbe stata ancora più sventurata la terra d’Italia, se - avendo avuto bisogno di eroi - non ne avesse trovati. Paolo Borsellino è stato uno dei più grandi eroi della seconda metà del secolo scorso, in una schiera tanto (troppo) lunga quanto gloriosa di magistrati uccisi perché svolgevano al meglio il loro lavoro. Sarebbe sventurata adesso la terra d’Italia se di quella testimonianza eroica disperdesse l’insegnamento.
* Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri