Martedì 16 Dicembre 2025

«I partigiani comunisti odiavano la nostra fede»

Nel Giorno del Ricordo, reportage esclusivo sulle atrocità titine di Fausto Biloslavo e Matteo Carnieletto

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«Erano i partigiani comunisti slavi a fornire agli inglesi le coordinate per i bombardamenti. Hanno distrutto anche la nostra cattedrale, sventrandola completamente. I titini facevano colpire soprattutto le chiese perché odiavano la nostra fede». Ernesta ha 85 anni ed è la persona più anziana di Ossero, un piccolo comune istriano, oggi abitato da sole venti persone, tra l’isola di Cherso e quella di Lussino. Uno snodo, che unisce e divide. Quando, nel 1943, i partigiani arrivano ad Ossero, Ernesta è solo una bambina: «Capivo poco, ma sentivo quello che gli adulti dicevano tra di loro. Mio padre era il podestà del paese e, finita la guerra, desiderava portarci via perché voleva che vivessimo in Italia. Ma non gliel’hanno mai permesso», racconta. E questo non per motivi politici ma per una semplice vendetta privata. Pur non avendo mai compiuto alcuna violenza o minaccia, infatti, il padre della donna si inimica un uomo di Lussino, poi entrato nell’amministrazione jugoslava, che gli rende la vita impossibile. «Ti ho già respinto tre volte», gli dice. Ernesta rimane così inchiodata lì, in quel piccolo comune tra le due isole. E non se ne andrà mai. Una Via Crucis Nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1945, ventuno marò della Decima Mas e sette soldati della Tramontana partono da Neresine in direzione di Ossero: sono prigionieri che si sono arresi di fronte ai partigiani titini. Mancano pochi giorni alla fine della guerra e i combattimenti si fanno sempre più rari. Il mondo, dopo oltre sei anni di battaglie, sta finalmente tornando alla pace. Che quei ventotto ragazzi, però, non vedranno mai: «Ho sentito che sono sepolti nel cimitero di Ossero, che i partigiani li hanno portati qui e che qui li hanno uccisi», racconta Ernesta. La loro marcia dura poco ma è una vera e propria Via Crucis. Botte, insulti, sputi. Cinque chilometri che sembrano infiniti. I prigionieri vengono portati dietro al cimitero, dove vengono massacrati. «Ho sentito la loro storia», racconta commossa Ernesta. Secondo una ricostruzione resa possibile dai fori e dalle lesioni delle ossa, «circa la metà dei militari ha ricevuto un colpo alla nuca». Ma non solo. I titini avrebbero usato anche una mazza ferrata per fracassare la testa dei marò. Bisognava essere certi che morissero. Dovevano morire. I corpi vengono gettati uno sopra l’altro e nascosti dalla terra proprio al di fuori del cimitero di Ossero. Riposano lì per più di sessant’anni, fino al 2019. È in quell’anno che il Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, in collaborazione con le autorità croate, li riesuma. Seminari chiusi Tutti sapevano quello che era successo ma il terrore del governo comunista di Josip Broz Tito basta a far calare il silenzio per decenni. Come racconta Valter Župan, all’epoca arcivescovo di Veglia: «Per noi, gli anni dopo la Seconda guerra mondiale sono stati terribili: ho sentito di molte persone che sono state seppellite vive, soprattutto coloro che non la pensavano come Tito. Molti civili. E non solo italiani, ma anche croati e sloveni. Specialmente l'intellighenzia: il comunismo non ammetteva oppositori». E ancora, prosegue l’arcivescovo mentre disvela, a poco a poco, i ricordi della sua gioventù: «Era raccomandabile non parlare perché poteva essere molto pericoloso non solo per la persona che si esponeva, ma anche per le istituzioni che rappresentava». Come la Chiesa, che sotto Tito vive una vera e propria persecuzione: «In quegli anni erano stati chiusi i seminari di Rjieka (Fiume), Split (Spalato) e Djakovo. Durante il comunismo non si poteva esprimere il proprio parere. Era un sistema che permetteva di pensare in un unico modo: come l’autorità». La libertà è negata in ogni sua forma. Gli uomini dell’Ozna e dell’Udba, i terribili servizi segreti jugoslavi, hanno orecchie ovunque. Basta una parola fuori posto, un malinteso, per finire nei campi di rieducazione, come quello di Goli Otok, l’isola calva. È qui che finiscono i cosiddetti “cominformisti” - ovvero quei comunisti, molti dei quali italiani provenienti da Monfalcone - che, dopo lo strappo tra Tito e Stalin, decidono di rimanere fedeli all’Unione sovietica. Per il regime jugoslavo è un affronto intollerabile. Interrogatori e torture Chi è legato a Mosca viene preso, soprattutto di notte, caricato su un’imbarcazione, e portato di notte, tra i neri flutti dell’Adriatico, sull’isola. Qui si viene accolti dal cosiddetto stroj, un carosello di botte gestito dai detenuti. Mostrare pietà è impossibile. Si può solo colpire e insultare il malcapitato. Le giornate sull’isola sono tutte uguali. Ci si sveglia all’alba e poi si corre da una parte all’altra del campo. Come gli ignavi nella Divina Commedia di Dante. Non hanno una meta. Devono solo muoversi. E in fretta. A volte lavorano nei laboratori, altre volte invece vengono umiliati. C’è chi viene costretto a fare ombra alle piante appena seminate e chi, invece, è costretto a scavare la sabbia del mare che resterà inutilizzata. Gli interrogatori sono estenuanti. Si viene portati all’estremo. Si tratta di vere e proprie torture psicologiche portate avanti per far confessare crimini mai commessi. I più difficili da piegare vengono spediti nel “buco”, un avvallamento del terreno dove il sole fiacca tutto ciò che incontra e dove il vento e il freddo rendono tutto sterile. Ogni detenuto diventa un nemico, come racconta Sergio Borme: «Ad un certo momento non ti fidavi più di nessuno. Se qualcuno ti diceva, o raccontava qualcosa, dovevi riferire subito, altrimenti andavano loro a riportare la faccenda operando spesso da agenti provocatori. Un sistema allucinante che purtroppo veniva attuato quasi da tutti». «Io mi sento italiana» Quando, dopo esser stati “rieducati”, i cominformisti tornano finalmente a casa, si trincerano in un muro di silenzio. Cercano di rimuovere ciò che è stato. Dimenticano, o almeno ci provano, le umiliazioni e le percosse. E pure il lavaggio del cervello. «Fino agli anni Novanta, noi giovani non sapevamo nulla dell’esodo, delle foibe e dei crimini del comunismo. Oggi, però, stiamo venendo finalmente a conoscenza delle violenze che sono state compiute in quegli anni in Jugoslavia», racconta Sanjin Zoretić, presidente dell’Unione italiana di Lussinpiccolo. Che prosegue: «La paura e il terrore hanno accompagnato i crimini di guerra. Quando i partigiani hanno ammazzato i cetnici - come mi ha raccontato mia nonna quando ero piccolo - il mare era rosso sangue». Le ferite del Dopoguerra, in tutta l’Istria e la Dalmazia, sono ancora aperte. «Sotto all’aeroporto ci sono ancora i cadaveri dei soldati tedeschi ammazzati a guerra finita», racconta Zoretić. E passando tra le strade che tagliano l’isola, guardando i boschi che le circondano, non si può far altro che pensare a quali segreti nascondono ancora oggi. A quante vite sono state spezzate in quei luoghi. A quante storie sono state dimenticate e, forse, non verranno mai raccontate.  Gli italiani, in Istria e Dalmazia, sono sempre di meno. Trecentomila se ne sono andati a guerra finita. Chi è rimasto cerca di mantenere un legame, seppur tenue, con il nostro Paese: «Per me non esistono divisioni tra esuli e rimasti. Non mi piacciono le divisioni, soprattutto ora che, all’interno dell’Unione europea, non esistono nemmeno i confini. Siamo un unico popolo». O come, più semplicemente, afferma Ernesta: «Io mi sento italiana. Anche se siamo finiti sotto la Jugoslavia, la mia famiglia ha sempre parlato l’italiano». (Foto di Matteo Carnieletto) (Questo articolo è stato pubblicato sul Timone di marzo 2024, pp. 26-29)

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