Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. La prima puntata è stata con il nuovo Vicario episcopale per la zona pastorale di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi, quindi la moglie di Bud Spencer e la terza con il cardinale Angelo Comastri. Ora, ecco l’intervista “postuma” con il grande giornalista scomparso lo scorso aprile.
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A ridosso delle feste natalizie, com’è stata consuetudine negli ultimi tempi, anche quest’anno mi sono recato a casa di Giorgio Torelli. Qualcuno potrà farmi notare che il grande scrittore non abita più il suo appartamento di via Olindo Guerrini a Milano, perché ormai chiamato a vivere in una dimora eterna. L’obiezione mi lascia indifferente, perché come cattolico sono certo che una vita dopo la morte ci attende – eccome! –, e questa è un nuovo inizio e non la conclusione di tutto; ergo, il modo di esserci è solo mutato nel vestimento. I nostri cari defunti salvati, de facto non si trovano in uno spazio virtuale, bensì partecipano dello stato della Chiesa purgante o trionfante, e sono dunque presenti nella Presenza divina.
D’altronde, la sola prospettiva che l’uomo venga dal nulla per finire nel nulla mi crea una sensazione di fastidio: che senso ha o avrebbe avuto, infatti, mantenere il proposito di agire come si conviene se ad aspettarci ci fosse un gran vuoto pronto a risucchiarci nel suo niente? Sull’aldilà (ma anche sull’al di qua) se ne sentono tante, eppure di quel che pensa la gente poco m’interessa (è un giudizio che ho imparato dal Vangelo), mentre mi attira quanto hanno consegnato ai posteri i grandi pensatori: e tra questi annovero senza dubbio l’amico cronista, il quale ha dichiarato nel Congedo al mio libro Cacciatore di buone nuove. Giorgio Torelli, giornalista a modo suo (Àncora 2022), quasi a suggerirci tîn bôta: «Ho collezionato e messo in parole vite d’ogni risalto. Sono stati sessant’anni di scrittura, tuttora in corso d’opera, sovrastata da un pensiero dominante. Questo: che ogni mio aver scantonato possa essere abbuonato da quel che più spesso invoco come continuo involucro dei pensieri: la debordante, paterna misericordia di Dio, senza la quale – credo – solo rarissimi passaporti per la nuova dimensione potranno essere vidimati».
Egli è stato per davvero fautore di un sano giornalismo e questo dato ha già in sé del prodigioso, così come ancor di più appaiono le motivazioni messe da lui stesso nero su bianco: «Ritengo – ha affermato – che fare il giornalista sia un privilegio. Ma che farlo bene sia anche un obbligo. La linea che mi sono assegnato io è quella di offrire, nel contesto eccitato del giornale, un bicchier d’acqua. Lo sappiamo tutti come affatica la società, come travaglia, come suda. Il proposito è che tu, caro lettore, possa prendere fiato. Ti racconto apposta una storia che ti disseti. E questo diventa controgiornalismo, visto che le buone notizie non sono contemplate come notizie. Bisogna invece andare alla ricerca di persone che, in questo specchio deformante, dove si fa a gara nel rincorrere il peggio, diventino storie così belle da far dire a chi legge: finché c’è gente così possiamo sperare».
Tornando alla faccenda dell’abitazione all’apparenza vuota, io al contrario l’ho percepita “piena”: ogni cosa parla di Torelli, e gli oggetti sono accomunati dal desiderio di evocare un aneddoto familiare per chi è stato suo abituale lettore o ascoltatore. Ci sono ricordi di Giovannino Guareschi, Giuseppe Novello, Alarico Gattia, Presidenti della Repubblica, Papi, Cardinali, artisti, soggetti incontrati chissaddove, figure andate a cercare fin in capo al mondo, e chi più ne ha più ne metta. Giorgio ha incrociato miriadi di persone e personaggi, andando a scovarli nei luoghi più impensati, per raccontarci le loro storie che sono divenute patrimonio di tutti: dall’equatore alle isole Fiji, dal Polo nord al deserto del Sahara, da Hollywood alla linea della data. Tra i suoi ritratti sono compresi grandi scrittori e colleghi (come Montale e Montanelli), eroi (come Baba Camillo e Vittorio Pastori, detto “don Vittorione”), santi (come Madre Teresa di Calcutta e il Venerabile Marcello Candia), pontefici (come Paolo VI e Giovanni Paolo II), individui comuni e i cosiddetti very important people. A tal proposito, rammento quando gli proponevo il gioco degli intervistati: facevo dei nomi di personalità famose per accertarmi se fossero passati sotto il suo sguardo indagatore, e lui mi rispondeva “sì” o “no” (di “no” praticamente non ne ho sentiti). Chiedevo, per esempio: “Luciano Pavarotti l’hai incrociato?”, e la risposta era “Sì”; allora incalzavo: “Fernandel? Aldo Fabrizi? Walt Disney? Gregory Peck? Enzo Ferrari? Giulio Andreotti? Sofia Loren? Joseph Ratzinger…?”, e in replica sempre un “Sì, sì, sì…”. Da Giorgio ho anche ottenuto la medaglia al merito di giornalismo, quando – più o meno in maniera incosciente – gli ho proposto di farsi intervistare da me, che la scuola di giornalismo non sa neppure cosa sia: «Figurati – mi aveva confortato –, s’impara sul campo. Gli studi oggi sono essenziali, ma poi bisogna avere delle doti di scrittura e di acume che nessuna università ti può dare». M’accorgevo allora che la stima per i colleghi scarseggiava, perché la professione – come ha rilevato Maria Barbieri nell’Epilogo al mio volume – «è troppo spesso legata a un mero lavoro di cronaca banale o di approfondimenti più o meno faziosi».
Il columnist coi baffi da reggitore, nelle sue iperboli – narrate come solo un cantastorie sa fare –, mi spiegava che per un’intervista fatta ad hoc ci vogliono almeno tre ore: «Nella prima l’intervistato racconta quello che direbbe a chiunque; nella seconda incomincia a sbilanciarsi con qualche confidenza che solitamente svela a pochi; infine, conquistata la sua fiducia, nell’ultima ti rivela quello che non confesserebbe quasi a nessuno». A Riccardo Muti chiese un tempo spropositato e al principio il Maestro si negò: «Poi ci ripensò – mi fu riferito da Torelli –, perché a tutti piace apparire sulla carta stampata di un quotidiano nazionale. Una volta che uscì il pezzo – e davvero stetti con lui un pomeriggio – mi richiamò per congratularsi per aver colto nel profondo la sua umanità». Lo stesso accadde con Michel Platini: «Riuscii a non usare mai il termine “calcio” in tutto il paginone a disposizione», tanto che ricevette una telefonata dal calciatore, il quale «voleva congratularsi per l’articolo capace di svelare il suo lato più intimo». Scoprire e riconsegnare quanto alberga nello spirito umano interessava al cacciatore di buone nuove.
Ed ecco donatami l’immagine del guinzaglio: «L’intervista è come fare una passeggiata con un bel cane che non si conosce: dapprima si deve lasciare allungata il più possibile la corda, così che l’animale di razza si sfoghi correndo e divertendosi, poi a mano a mano che il tempo scorre bisogna accorciarla, portandolo vicino a sé, finché non si limita il raggio e ce lo si fa amico, per poi condurlo in giro dove uno vuole». Con onore, la medaglia al merito è stata appuntata pure sul mio petto dallo stesso inviato speciale di storie viste dal vero: «Quanto ti ho spiegato è un po’ quello che tu hai fatto con me, perché il valore di una buona inchiesta lo si ottiene a partire dall’interesse che l’altro ci suscita. Non può essere un scialbo lavoro di compilazione!».
Nell’alloggio di Giorgio, rievoco ancora i lunghi discorsi scambiati davanti al presepio composto sul cassettone parmigiano, che è un Luigi Quindici di campagna: bella noce lavorata a sgorbia, le vecchie chiavi, le maniglie di bronzo, i cassetti ancora con la carta a fiori che v’incollò la sua bisnonna, moglie di un seminatore: «Mia bisnonna Maria – non mi fu taciuto – partorì davanti al cassettone. E anche mia nonna Rosa ebbe il cassettone a testimone della nascita di undici figli. C’è forse un posto migliore per disporre la millenaria rappresentazione della Vergine madre che allatta il Figlio di Dio?». Le statuine sono armoniose: «Me le regalò un valligiano delle Dolomiti a cui avevo tanto guardato le mani: grosse e nodose, erano state capaci di sbozzare dal legno dolce degli agnellini di trepido belato. Il belato pareva sentirsi, il vello era morbido, il legno parlava. Quei primi uomini e donne che videro il Bambino e capirono, o intuirono, o accettarono la stupefazione, sono sempre stati con me, dentro una vecchia scatola con spago. Escono a Natale, si lasciano allineare su una carta a festoncini che imita il verde di un prato. Quando qualcuno tira il cassetto del mobile, le pecore cadono di lato e i pastori oscillano».
In illo tempore, guardai con stupore la cometa e fui subito edotto: «È vecchia, comprata a un negozietto di cartolaio forse sessant’anni fa. Brilla di luce propria per chi sa avvistarla. Volendo autenticare l’insieme, pongo sempre dalle parti della capanna una pietra chiara. L’ho raccolta io stesso a Betlemme una notte che nevicava. Rabbrividivo davanti alla basilica della Natività, non si vedeva un’anima, solo un asino beduino alla capezza, con il vento che spirava gelido. M’ero ammantellato dentro una berlina nera che mi era stata messa a disposizione dal re Hussein di Giordania che dovevo intervistare. Siccome il nostro incontro tardava nel tempo, il sovrano del deserto aveva avuto il garbo d’inviarmi la vettura: andassi dove volevo lungo il suo regno. E io avevo subito scelto Betlemme di Giudea». L’attenzione del reporter di lungo corso è sui dettagli, che in lui divengono fondamentali, facendo perdere la sensazione erronea di essere accessori: «L’autista in uniforme era un sottufficiale della Legione araba. Sentivo il suo sguardo alle spalle mentre restavo immobile, nel turbinare del nevischio, davanti alla chiesa sbarrata e con quel ciuco intirizzito dai lunghi orecchi ormai bianchi».
Rimedito come, in ogni occasione, sia stato felice il nostro appuntamento fissato nei giorni che precedono il Natale. È come se Giorgio si spogliasse senza pudore dell’armatura invisibile che il resto dell’anno indossava per via del drago da abbattere, ossia la battaglia contro il peggio. Le confidenze del giornalista a modo suo furono molte e si affastellano nella mia memoria: «Davanti al presepe ad ogni presepe di ogni anno che viene, convoco per prime le parole che ho scritto, le affollo davanti a me, le spingo avanti, le sospingo perché mi rappresentino e siano giustificate. Faccio il pastore delle parole che ho messo su carta, tante. Non ho altro, non posseggo niente altro che sia più me stesso e sveli, narri, descriva chi sono, come sento, come voglio essere, come sono stato, dove voglio portare un tale come me, uno che ha avuto il privilegio a vita di fronteggiarsi col foglio bianco e precisarsi sulla carta a perdere, sempre nella pura ipotesi che gli sia riuscito di prelevare dal pagliaio spagliato delle cose messe in serbo, e custodite per l’occasione della scrittura, il meglio del sentire e quanto il senno di prima (non quello di poi) avesse a prescrivere. Davanti all’Universo e all’ansito degli uomini, le parole di un giornalista sono esposte ad ogni vento, buriana, calma piatta, risacca, onda lunga, bonaccia e volgere dei mutevoli barometri. Ma chissà. E ancora chissà. C’è una speranza di fondo. Chi scrive molte parole, non volendo che siano unicamente parole senza vele, spera, per arbitrio personale, che scirocco, tramontana, grecale, libeccio, portino qualche suo dire là, in fondo là, esattamente là, dove qualcuno, sconosciuto e insospettato, vi si riconosca, e accetti quelle parole in viaggio, le adotti, le trattenga un attimo, due attimi, un’ora, un giorno, mentre le cloches suonano ai campanili di pietra e i Natali, in bilico anche loro, diventino ancora Quaresima, Venerdì santo, Pasqua bagnata o raggiante, Maria assunta in cielo, Avvento, e di nuovo Natali e Santi Stefani con gli affetti e le liaisons chiamati in causa».
Una vocazione e non un mero mestiere, un’arte – di artista e di artigiano – quella dello scrivere con bello stilo: «Io, per me, so perché ho scritto parole. L’ho fatto perché tengo bottega artigiana di vocaboli buoni a tutto, multiuso, come si dice oggi. Ho una premiata – premiata lo dico io per stare al gioco – falegnameria di frasi fatte in casa, messe a lima e carta raspa. Tuttora, incastro parole a nido di rondine, e m’industrio a snellirle sotto il lume, a far trucioli con una pialla intima, un attrezzo personale che c’è senza che si veda. È tutta la vita che lavoriamo, quella pialla ed io, per essere almeno passabili “falegnami in parole” e volersi chiamare maringone in noce, legno nobile per pialle fini, titolo reputato come quando si dice “ricamatrice in bianco” o “tessitore di gran pazienza” a uno di quei telai dagli schiocchi antichi e cadenzati. Guadagno il mio pane di Provvidenza coi piedi nella segatura. Anche le parole, soprattutto le parole che si devono adattare perché combacino, fanno segatura. E nello sdrucirsi del Tempo possono diventare esse stesse segatura di terza scelta, polvere di legno esposta alla prima sgomitata d’aria, subito fradicia appena lo vogliano i piovaschi. Cosa volete, il grembiale rattoppato».
Mi chiedo cosa avesse voluto dirci, Giorgio: «Fuor di metafora – mi soccorreva il custode di lemmi ricercati con cura –, ho memoria di un tempo smisurato in cui mi sono posto alla scrittura nel silenzio del mattino, magari la pioggia ai vetri di casa, la pipa accesa e poi lasciata spegnere per il prevalere del soprappensiero, i fiammiferi a capocchia chiamati in causa per dar luogo a un fiammeggiare continuo insistito, balenante, uno zolfanello, un sólfer, un “prospero” (come dicono i raffinati), per riavviare la pipa e riavviare anche me, far fuoco, accendermi, darmi luce perché il mestiere del dir parole venga bene e sia come ha da essere secondo i propositi: chiaro, forte o sfumato; incisivo o a blandizie; gridato, sussurrato o confidato. Confidato è il meglio. Scrivere è confidare. Scrivere è farsi al proscenio in bretelle».
Ecco allora un nuovo Natale, la festa dell’Incarnazione, di una concretezza sconvolgente: «Natale, Christmas, Noël, tutti i Noël avuti in sorte dal primo a quello dell’anno che fu, notte italiana del 24 dicembre, giorno del 25, neve sì, neve no, neve forse, ecco perché mi presento alla grotta della nostra fanciullezza. E ho urgenza (e non è un pallino), di sapere se tra i lettori ho avuto Dio onnipotente, il Pater noster in excelsis, che alla sua età non ha bisogno di occhiali per leggere, per scrutare, per conoscere quel che sa già a memoria. È Lui che ai margini del Tempo si alliscia e si tormenta la gran barba di seta che le absidi di campagna attribuiscono in silenzio a ogni Eterno Padre colorato. È Lui che, al picco dei picchi (ma subito qui), tiene al collo – “Memento! Memento!” – un chiodo di suo Figlio, un chiodaccio avariato, un cioldàs da caval, un gran pínngol, un bagaj ’d fér, uno di quei cosi a martello che squarciarono un giovane nudo e fatto Cristo per tutti i poveri cristi di ieri l’altro, di oggi stesso, appena fa notte, di dopo e ancora dopo, fin quando i cieli d’ogni luce e tempesta volgano e ancora volgano in oro, argento e mirra (Le trombe! Sentite le trombe!)».
Grazie Giorgio, uomo giusto, persona perbene, cristiano autentico, testimone di pagine battute e ribattute con la macchina da scrivere per narrare avvenimenti sondati dall’antiluna, in grado di dare forza, ristoro, speranza a chi è ancora in cammino. Mi vien da esclamare: “Addio – ad Deum – Torelli!”, e che Dio t’in rènda mêrit.
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