Giovedì 23 Ottobre 2025

Suor Elena Massimi: «Senza musica sacra a Messa manca il mistero»

«Lo diceva anche Papa Ratzinger parlando della musica quale testimonianza della fede», afferma, intervista da don Samuele Pinna, la religiosa Figlia di Maria Ausiliatrice (salesiana di don Bosco) responsabile della sezione Musica per la Liturgia dell’Ufficio Liturgico Nazionale della Cei

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Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Dopo la prima puntata – che ha visto protagonista il nuovo Vicario episcopale per la zona pastorale di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi -, la seconda – con la signora Maria Amata Vasaturo in Pedersoli -, la terza – con Wilma De Angelis – la quarta – con Paolo Gulisano, la quinta – con Alberto Guareschi, la sesta – con padre Giuseppe Busato, quelle con Franco Nembrini, il professor Alessandro Ghisalberti e il professor Davide Riserbato, ecco una nuova puntata. ***** M’incontro con suor Elena Massimi, Figlia di Maria Ausiliatrice (salesiana di don Bosco), che ha un curriculum di tutto rispetto: docente a Padova e a Roma, responsabile della sezione Musica per la Liturgia dell’Ufficio Liturgico Nazionale della Cei e altri numerosi incarichi. Avevo avuto modo di conoscerla grazie alla carta stampata, tanto da citarla alla lettera in un capitolo del mio libro Chi si aiuta Dio l’aiuta, ma parlandole di persona ne colgo ancora di più il suo valore. Il tema che voglio trattare con lei è quello della musica sacra, conscio che si tratta di uno tra i più dibattuti all’interno della cattolicità: « – vengo interrotto –, e se perdiamo gli orientamenti, si rimane in balia del soggettivismo estremo, quando invece il rito non lo tollera. Questa personalizzazione estrema alla fine oblia il mistero che celebriamo, perché nella liturgia più emerge l’io, meno emerge Dio». Parto con una domanda scontata: se la musica è una “parte integrante” della Liturgia, come si deve armonizzare con il rito? «Dire parte integrante significa affermare che è liturgia a tutti gli effetti, come ogni gesto, testo, epifania del mistero che celebriamo. Il cantare non è un’aggiunta, perché anche in quest’atto possiamo udire e incontrare il Signore. Per questo è necessario che si armonizzi con il rito, e ciò vuol dire che ci sia una coerenza con i gesti che si compiono e con i testi ai quali la musica viene associata. Faccio un esempio concreto: nella celebrazione eucaristica i riti di introduzione hanno la funzione d’introdurre per l’appunto l’assemblea al mistero che viene celebrato con il compito di accogliere il Signore che viene. Ecco perché nella processione introitale tutta la simbologia utilizzata è cristologica (pensiamo alla croce, all’evangeliario, al ministro ordinato). Il canto non può essere in dissonanza con quello che il gesto fa vivere all’assemblea. Poi bisogna stare anche molto attenti alla questione emotiva: la liturgia non ha mai tollerato emozioni troppo forti, perché il rischio – come osserva sant’Agostino nelle Confessioni –, è che quello che si canta possa allontanare spiritualmente dal mistero celebrato. Si deve ricercare, quindi, un’armonizzazione con il rito che è molto delicata. C’è, inoltre, una cosa interessantissima: la Sacrosanctum Concilium dichiara che “la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica” [n. 112], cioè al rito stesso. In fondo, è la liturgia che ti dice se un canto può essere adatto o meno, perché è nell’atto celebrativo che funziona se effettivamente si armonizza con tutti gli altri linguaggi verbali o non verbali della liturgia. Un altro esempio è quello delle acclamazioni: se dovessi associare all’alleluia una melodia che non è acclamatoria rischio di distruggerne il senso (penso a chi esegue l’Hallelujah di Cohen che non ha nulla a che vedere con quanto si celebra). La musica ha, inoltre, il compito di amplificare il senso dell’esperienza del mistero e non invece di contrastarlo. Pensiamo alla comunione: quando si scelgono canti individualisti a livello testuale e musicale che ricalcano la musica leggera, che cosa succede? Capita che quando andiamo a ricevere il Corpo del Signore non viviamo il diventare il Corpo di Cristo, quindi Chiesa, ma sottolineiamo solamente la dimensione verticale, intimistica di quel momento. In realtà, in quello spazio di tempo avviene molto di più, tanto che l’ordinamento generale del Messale romano dice che il canto deve esprimere, “mediante l’accordo delle voci, l’unione spirituale di coloro che si comunicano” [OGMR, n. 86]. Non da ultimo, l’armonizzazione della musica deve tenere presente la coerenza e il rispetto verso l’architettura dell’edificio sacro: un conto è, infatti, celebrare in una chiesa romanica e un conto in una di recente costruzione». Mi pare che queste parole siano l’esatto contrario della mentalità dominante, dove non pare esserci altro criterio che il gusto soggettivo: «Papa Francesco nella lettera Desiderio desideravi scrive una cosa secondo me fondamentale: lo stupore nella liturgia è lo stupore per aver incontrato il Mistero, per aver fatto esperienza del Mistero, per aver fatto esperienza della morte e risurrezione di Cristo. Quando incontriamo dei ragazzi che partecipano bene alle celebrazioni liturgiche la domanda che ci dobbiamo porre è: quale esperienza fanno con quel canto? Si stanno emozionando perché hanno incontrato il Signore oppure perché quel brano gli ricorda un’esperienza esterna alla liturgia stessa? Questo è fondamentale. Oggi noi diciamo: “Quel canto mi piace, e quindi lo eseguo, perché mi scalda il cuore”, ma dovremmo domandarci se intercetta solo il mio bisogno emotivo oppure mi aiuta a fare l’esperienza del mistero pasquale? Qui sta la linea di demarcazione. Non ci dobbiamo far ingannare dalle emotività che alcuni canti trasmettono, perché la partecipazione che suscitano potrebbe non essere rivolta al Mistero, bensì ad altro, non per forza negativo in sé ma che non fa avvicinare a Dio. Del resto, alla musica liturgica si viene educati. Il rischio è di costruire un castello senza fondamenta, perché c’è bisogno di una scelta di fede alla base. In questi tempi così faticosi è bene sempre tenere come punti di riferimento alcuni documenti, come la Sacrosanctum Concilium, che dopo aver mostrato la grandezza della liturgia afferma che questa non esaurisce la vita della Chiesa. La fede deve essere vissuta anche nella carità, nella preghiera personale, nella missione, nell’annuncio, mostrando come il mistero pasquale trovi il suo punto apice, d’arrivo e di partenza nella liturgia e che va poi vissuto e praticato oltre la liturgia stessa. Al contrario noi, ignorando la vita di fede, pretendiamo di tenere in piedi lo stesso il castello senza le giuste fondamenta. Questo non è possibile, perché se manca la vita di fede la liturgia non si nutre, diventa difficile. Non è la liturgia che non funziona, ma non funzionano le comunità! Manca tutto se la liturgia non trova alimento nella vita spirituale, se non c’è un cammino di conversione». È stato citato il Vaticano II e non posso, perciò, esimermi dal domandare cosa insegna il Concilio rispetto alla musica sacra, perché molte interpretazioni parlano di rivoluzione: «Si sta studiando quanto accaduto negli anni intorno al Concilio e solo adesso lo si può fare con più oggettività, perché la generazione precedente era implicata in prima persona. Sacrosanctum Concilium è il punto d’arrivo di un lungo percorso, e la grandezza della Costituzione conciliare sulla liturgia sta nel fatto che non è un testo di chiusura a riflessioni successive. Se indaghiamo sulla musica sacra, il capitolo sesto è frutto di un compromesso, perché si tengono insieme più elementi (l’organo e gli altri strumenti musicali, il patrimonio di musica sacra e l’apertura a nuove composizioni, l’importanza del canto gregoriano e le composizioni contemporanee). Nel postconcilio, purtroppo – ma probabilmente non si poteva agire diversamente – è stato poco valorizzato il patrimonio di musica sacra che ci è stato consegnato, a favore di nuove composizioni non sempre degne della liturgia. La Riforma Liturgica è stata recepita come se nella liturgia fosse possibile mettere dentro tutto quello che c’è di più quotidiano per rendere la ritualità significativa, e allora canti ispirati alla musica pop, vesti liturgiche di discutibile bellezza, chiese che assomigliano a dei garage, preghiere dei fedeli che assomigliano a piccoli sermoni a carattere morale. Dovremmo domandarci se tutto ciò non ha in realtà prodotto una secolarizzazione della liturgia, prendendo le distanze, senza un accurato discernimento, da ciò che ci aveva preceduto. Pensiamo a un mottetto di Palestrina alla Presentazione dei doni o al Postcommunio: perché non può essere eseguito nella chiesa cattedrale, dove c’è la corale? O perché il canto di ingresso non può essere un’alternanza tra il coro e l’assemblea, cosicché l’assemblea si possa formare anche con l’ascolto? Purtroppo, nel postconcilio non si è percorsa una via di equilibrio, ma ci si sono portati quelli erano gli stili musicali della musica giovanile nella liturgia, tutto in virtù della partecipazione attiva. Nascono così, insieme a repertori degni della liturgia, molti brani scadenti per testo e melodia. È importante anche mettere in luce una qualche incomprensione relativamente alla partecipazione attiva: non tutti devono fare tutto, ma ciascuno deve fare ciò che gli spetta. Anche per il canto: è molto bello quando in una assemblea alcuni canti vedono l’intervento dei solisti, o del coro alternati all’assemblea, considerando cioè che l’assemblea (per diritto e dovere) deve cantare». Interrompo: quale la soluzione? «Secondo me, questo è il tempo di equilibrare le cose nei nostri repertori, cioè di prendere ciò che la tradizione ci ha tramandato e aprirci a composizioni anche un pochino più elevate, tenendo sempre in considerazione la pertinenza con la liturgia. Oggi si rivela una bella strada da percorrere, perché in modo un po’ più maturo possiamo andare a vedere al passato e recuperare la grandezza delle opere che sono state prodotte. Quello che può entrare in armonia con la liturgia di Paolo VI dobbiamo, pertanto, recuperarlo a partire dal patrimonio che ci è stato consegnato dalla tradizione. Lo ha confermato pure papa Ratzinger quando ha parlato della musica quale testimonianza della fede e della preghiera della Chiesa, ed è quello che penso anch’io…».  Cosa risponde a chi dice che la liturgia è noiosa e quindi bisogna rinnovarla nel canto seguendo i gusti giovanili (come se fossero tutti uguali!), così da coinvolgere le nuove generazioni? «Questa è una grande stupidaggine che viene detta da persone che secondo me non hanno esperienza di cori giovanili. Ci dobbiamo, invece, porre come adulti e come educatori: quando ho iniziato il conservatorio a otto ho imparato a suonare Mozart o Beethoven, nelle loro composizioni più semplici, sono stata educata a ciò. Perché per la musica liturgica non possiamo fare questo discorso? In questo modo, si risponderebbe anche a un bisogno culturale, perché la Chiesa cattolica è andata sempre a intercettare le lacune culturali della società. Nell’Ottocento l’educazione dei giovani era un grave problema nel Regno di Sardegna e che cosa ha fatto don Bosco? Ha istituito scuole, ha reinventato l’oratorio… I ragazzi oggi cantano praticamente solo nella liturgia. Guardiamo sempre le cose da una prospettiva negativa, ma in fondo la liturgia oggi fa cantare ancora molti bambini, e allora perché non immaginare un percorso di educazione seria? Certo che è più comodo dare ai ragazzi brani di musica pop, ma è altrettanto ovvio che rimane un’illusione convincersi che questa sia “partecipazione attiva”. Insegnare qualche pezzettino di musica più elevata, tratta dal patrimonio della Chiesa cattolica, non necessariamente finalizzata alla liturgia, come il Gloria di Vivaldi, fa assaporare una qualità sonora che apre a un’esperienza del mistero. Solo che ci vuole tempo, competenza, investimento di risorse». Mi accomiato da suor Elena corroborato, dopo aver parlato ancora di tanti altri aspetti, ma tempus fugit. Mi viene, però, regalato ancora un ultimo – e, forse, più importante – pensiero: «Non dobbiamo avere paura di e far pregare nella liturgia». ABBONATI ORA ALLA RIVISTA!

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